Le dichiarazioni di qualche giorni della triatleta belga Jolien Vermeylen riguardo le condizioni dell’acqua della Senna in cui ha gareggiato, erano da film dell’orrore: “ho annusato e visto cose a cui non voglio pensare (…) chissà se mi ammalo pure io”. Preoccupazioni concrete, poi realizzatesi nel ricovero della sua collega belga Claire Michel dopo aver contratto il virus dell’Escherichia Coli, seguito poi dall’abbandono della gare da parte dei triatleti svizzeri Simon Westermann e Adrien Briffod, entrambi con sintomi di infezione gastrointestinale. Visto che dall’organizzazione dei giochi sembra essere totalmente sorda alle lamentele degli atleti, evidentemente convinta che il fascino del fiume parigino sia parte fondamentale e insostituibile per l’atmosfera olimpica, i malcapitati nuotatori cercano di difendersi come possono, e a quanto pare una soluzione per scongiurare ulteriori infezioni l’hanno trovata: ampie sorsate di Coca-Cola post gara, citata per nome e cognome, con tanto di atlete abbracciate alle bottiglie.
Verità o superstizione
Fu la stessa Vermeylen ad invocare, pur con altre intenzioni, i soft drink: Ho bevuto molta acqua e non ha certo il sapore della Coca Cola o della Sprite… Spero di non ammalarmi”, e chissà che qualcuno non abbia preso ispirazione, anche perché l’origine di questa pratica non è chiara, se non nelle speranze di chi, dopo aver nuotato in un corso d’acqua in condizioni non certo ideali per la vita, si attacca a qualsiasi cosa pur di scongiurare un ricovero. Chiariamo una cosa fin da subito: la Coca Cola, né nessun’altra bibita analoga, non ha alcun effetto antinfettivo. Lo conferma anche la dottoressa Maria Abreu, presidente dell’Associazione Gastroenterologi Americani, spiegando che la bevanda non è più acida del normale Ph dello stomaco di una persona in salute, non potendo quindi aver nessun effetto particolarmente benefico. Un parere autorevole, ma forse anche solo un po’ di buon senso sarebbe bastato per trarre la stessa conclusione.
Sta di fatto che tra gli atleti non ci sono dubbi: “la leggenda della Coca-Cola è vera”, dice Moesha Johnson della squadra Australiana. “Ne beviamo spesso una dopo la gara per cercare di liberarci di qualsiasi cosa si possa aver mandato giù”, e dalle compagini americane, italiane e neozelandesi la sicurezza sull’argomento è altrettanto granitica, anche se le alternative non mancano: c’è chi cerca di potenziare il sistema immunitario con un probiotico, lo Yakult, nominato senza timore di pubblicità occulta, chi si affida all’alcool e alle erbe dello Jagermaister, come la nuotatrice statunitense Emily Klueh. Non sono certo i prodotti che ci aspetteremmo di vedere citati da monumenti alla salute come gli atleti olimpici, ma sicuramente con le calorie che bruciano possono permettersi qualche sgarro in più di noi comuni mortali. Piuttosto, vedere tutti questi marchi citati per nome nelle interviste ci fa sospettare che ad avviare questa campagna, più apotropaica che sanitaria, sia stata un’abile strategia di product placement.
Sicuramente dopo una gara di nuoto reintegrare gli zuccheri è positivo, e una lattina di Cola ne contiene circa trentacinque grammi, ma non è efficace contro l’inquinamento del fiume. Non lo è stato un investimento da 1,4 miliardi di euro nel tentativo di renderlo balneabile, non lo sarà una lattina di bibita.