Sul fatto che il lievitato discoidale partenopeo per eccellenza sia diventato identificativo della cucina italiana non dovrebbe esserci alcun dubbio. Allo stesso modo, il considerare la gastronomia – o il cibo in tutto il suo enorme alone semantico, pizza naturalmente anche e soprattutto compresa – espressione della cultura di un determinato paese è un paradigma ormai abbondantemente accettato e anche spesso stimolato. Che succede, però, se si finisce con l’abusare di questa bella parola, che però rischia di essere piena di vento – “cultura”, per l’appunto -, per ottenere sgravi e favori? Che succede quando un potenziale valore aggiunto degenera in scusante per tenere il portafoglio pesante?
A sollevare il dubbio è Marco Gemelli de Il Forchettiere, nel raccontare i cosiddetti retroscena della kermesse Pitti Pizza & Friends, che occuperà per quattro giorni piazzale Michelangelo a Firenze trasformandolo – e qui citiamo direttamente Gemelli – in “un forno a cielo aperto”. La più pruriginosa pietra dello scandalo, per così definirla, sarebbe la concessione del benestare del Comune con la formula dell’attività culturale, che ha fondamentalmente abbattuto dell’80% il canone altrimenti previsto anche se l’evento in questione – scrive Gemelli – lascia “francamente poco spazio alla parte culturale”.
Pizza e cultura: il caso del Pitti Pizza & Friends di Firenze
È naturalmente difficile valutare la questione senza prendere alla mano i numeri: le stime azzardate dal collega, sulla base dei 4.350 metri quadri del piazzale Michelangelo, dei sette giorni complessivi di occupazione (tre per l’allestimento e quattro per la kermesse vera e propria, come accennato) e di un canone giornaliero di 5 euro al metro quadro (cifra riservata alle manifestazioni con finalità commerciali o pubblicitarie, come il festival in questione potrebbe – dovrebbe? – essere considerato), il conto segna un totale appena superiore ai 152mila euro.
Qui il primo buco: considerando Pitti Pizza & Friends un’attività culturale il totale arriva appena a 30 mila euro; e senza considerare la finalità commerciale – e badate bene: all’evento le pizze saranno di fatto vendute – si arriva invece a un canone complessivo di soli 6 mila euro. I numeri non mentono: “Visto che le pizze si vendono e l’attività commerciale pare palese, quindi, c’è un risparmio di almeno 120mila euro per gli organizzatori”, fa giustamente notare Gemelli.
La discrepanza, capirete bene, è tale da aver spinto gli organizzatori a correre ai proverbiali ripari prima ancora che la questione emergesse sulla stampa: nel comunicato di presentazione, infatti, si legge di un programma arricchito da “talk degli esperti nel settore della nutrizione, focalizzando l’attenzione sull’importanza di una pizza sana e in linea con i principi della dieta mediterranea”, o ancora della volontà di “richiamare l’attenzione anche delle scuole, in particolare quelle del settore alberghiero con giornalisti e nutrizionisti a confronto sui benefici della pizza e sulle sue diverse interpretazioni”.
Sulle promesse di “laboratori interattivi per gli istituti alberghieri locali” Gemelli fa notare che “un riscontro con il Saffi non ha dato conferme, c’è invece quello del Buontalenti (due istituti alberghieri fiorentini, ndr)”; mentre “né sul sito né sui social” della kermesse appare “alcuna traccia di talk o confronti con giornalisti e nutrizionisti, né ancora di iniziative educative di sorta”. La domanda, a questo punto, sorge ancora più nitida: come giustificare la dicitura di attività culturale, che ha evidentemente permesso di evadere i canoni più alti?