La più grande azienda di carne del mondo ammette di non poter evitare di deforestare l’Amazzonia

L'azienda si dice ottimista, gli allevatori scuotono la testa: un'inchiesta del The Guardian ribadisce il legame tra la produzione di carne e la deforestazione dell'Amazzonia.

La più grande azienda di carne del mondo ammette di non poter evitare di deforestare l’Amazzonia

La produzione di carne bovina è la prima causa di deforestazione. La brasiliana JBS, più grande azienda di carne al mondo, aveva promesso di “pulire” la propria filiera di approvigionamento entro la fine del 2025. Mentre ci avviciniamo alla metà dell’anno, l’atmosfera è pregna di cinismo e diffidenza.

Questo, opportunatamente riassunto, è il contesto. Un’inchiesta portata avanti da un team di giornalisti del The Guardian, Unearthed e Repórter Brasil ha intervistato più di 35 persone, tra cui allevatori e leader sindacali che rappresentano migliaia di aziende agricole negli stati di Pará e Rondônia, in Amazzonia. E il futuro, come accennato, pare già scritto. 

“Un punto di non ritorno”

carne

“Dicono che ce la faranno” ha spiegato un allevatore, riferendosi allo stop netto della deforestazione. “Ma ve lo dico da subito: è impossibile”. Il suo parere è stato seguito da un eco di consensi tra colleghi e sindacalisti. JBS, dal canto suo, ha dichiarato al The Guardian che “trarre inferenze e conclusioni da un campione limitato di 30 agricoltori ignorando il fatto che JBS ha oltre 40.000 fornitori registrati è del tutto irresponsabile”.

La marcia di Coldiretti contro la carne coltivata è stata un’ottima iniziativa La marcia di Coldiretti contro la carne coltivata è stata un’ottima iniziativa

L’azienda, in altre parole, pare salda nei suoi obiettivi, e sostiene di disporre di “una serie approfondita e solida di politiche, sistemi e investimenti integrati che stanno avendo un impatto concreto e positivo sulla riduzione dei rischi di deforestazione”. Per raggiungere il traguardo la JBS dovrà registrare tutti i suoi fornitori diretti e indiretti e garantire che nessuna delle carni acquistate in Amazzonia provenga da bovini che abbiano pascolato su terreni deforestati.

L’azienda, vale la pena notarlo, ha già creato una rete di “uffici verdi” per fornire consulenza gratuita agli allevatori su come conformarsi al processo di regolarizzazione, che dura dai tre ai sei mesi, e che prevede l’elaborazione di un piano per piantare più alberi, ritirarsi dai territori contesi o effettuare altre bonifiche ambientali; e in Parà ha avviato una collaborazione con le autorità locali consistente in un programma di marchiatura auricolare che monitorerà l’intera mandria di 26 milioni di bovini dello stato entro il 2026.

Il bacino di intervistati dal The Guardian, però, scuote la testa: gli ingranaggi della burocrazia, i tanti ostacoli tecnici e le incertezze sulla proprietà terriera (molti allevamenti sono stati creati invadendo terreni pubblici) rendono pressoché impossibile mantenere fede alla parola data.

L’inchiesta ha anche coinvolto fornitori indiretti che hanno ammesso apertamente di essersi avvalsi di intermediari per ripulire “l’impronta ambientale” del proprio bestiame: in molti, interrogati dai giornalisti, hanno spiegato che i nuovi sistemi di tracciabilità possono essere comodamente evasi macellando gli animali altrove per poi vendere direttamente la carne – anziché l’animale vivo – alla JBS o ad altri acquirenti. E gli scienziati, nel frattempo, suonano l’allarme: siamo sempre più vicini a un punto di non ritorno che vedrebbe l’Amazzonia trasformarsi da carbon sinkcarbon emitter.