I numeri parlano chiaro, e sono ragionevolmente allarmanti. Stando a uno studio svolto nel Regno Unito e pubblicato sull’European Journal of Nutrition, poco meno della metà (il 47%, a essere precisi) delle calorie giornaliere assunte dai bambini provengono da cibo ultra-processato. La quota sale addirittura al 59% se la forbice analizzata si apre a coinvolgere fino ai sette anni di età.
Inutile girarci intorno: male. Non è una sorpresa, badate bene, considerando che uno studio analogo ha recentemente svelato la stessa realtà per (almeno) due terzi degli adolescenti inglesi; e che gli stessi amici d’Oltremanica si stiano muovendo per chiedere al proprio governo un regime di imposte più severe sul cibo ultra-processato (tipo la Sugar Tax, che da noi fa tanta paura: in Terra d’Albione è già in vigore dall’aprile del 2018). Ma non divaghiamo.
Gli alimenti più comuni e il caso dell’Italia
Lo studio citato in apertura di articolo ha preso in analisi i dati di 2.591 bambini nati tra 2007-2008, registrando la loro dieta per un periodo di tre giorni, e esaminato il cibo secondo la classificazione Nova. Gli alimenti ultra-processati più comuni consumati dai bambini di 21 mesi erano yogurt aromatizzati e cereali integrali per la colazione. A sette anni, gli UPF più comuni erano invece cereali dolci, pane bianco e dessert. Al di là dei dati più o meno freddi, sono due le linee di interpretazione più interessanti.
Cancro, depressione, diabete, invecchiamento precoce del corpo e della mente: le conseguenze sono arcinote, e forse addirittura intuibili. Rana Conway, autrice principale dello studio, ha illustrato come i cibi in questione siano però erroneamente considerati salutari. Inquietante: se è vero che immettiamo nel nostro corpo può essere il primo dei veleni, non essere in grado di riconoscerli – per una carenza di formazione, sì, ma più probabilmente per una comunicazione volutamente viziata o peggio – è già di per sé una sentenza.
La seconda è quella che sottolinea come i tassi di consumo siano nettamente più alti tra coloro che provengono da contesti sociali ed economici più svantaggiati. Insomma, intavolare la discussione sui binari dell’educazione alimentare è un’idea, ma rischia di mancare per miopia un punto più tragico: a volte questi cibi sono gli unici che stanno in tasca. Il che ci porta all’Italia.
Lo Stivale veste di fatto la maglia nera per obesità infantile in Europa: numeri alla mano, si calcola che un bambino italiano su cinque sia in condizione di sovrappeso mentre uno su dieci sia invece affetto da obesità. E qui, non a caso, possiamo trovare entrambe le direttrici viste nelle ultime righe: che ci sia una situazione di diffusa difficoltà economica è chiaro, ma c’è anche quella stolida convinzione che questi problemi appartengano ad altri, e non a chi cresce con pasta al sugo. Sugo già pronto, magari.