Aver voglia di un Kit Kat, in Giappone, non è un desiderio così preciso e incontrovertibile come invece potrebbe sembrare.
Perchè il celebre snack dolce, quello diviso in quattro barrette di wafer ricoperte da cioccolato fondente, nel Paese nipponico è molto più del Kit Kat a cui noi occidentali siamo abituati. Ma molto di più.
Gli abitanti del Sol Levante hanno a disposizione una varietà di Kit Kat che farebbe impallidire chiunque (tranne loro, dannazione!): wasabi, sake e fiori di ciliegio, tra i tanti.
I gusti, tutti insieme, arrivano all’incirca a 300.
Il Kit Kat, approdato in Giappone sul finire degli anni Ottanta, è diventato il territorio perfetto per i virtuosismi intrapresi dai pasticcieri più temerari, così come per la curiosità di chi è sempre in vena di sperimentare qualcosa fuori dall’ordinario.
L’estrema popolarità della barretta dolce si dovrebbe anche all’assonanza con un modo di dire giapponese: “kito kato”, l’equivalente di un nostrano “In bocca al lupo!” che inneggia alla vittoria.
Quando arrivarono in Giappone le barrette erano accompagnate da biglietti di incoraggiamento scritti a mano: un bel dono da ricevere prima di affrontare una prova impegnativa. Non solo per l’auspicio di riuscita, ma anche per la corroborante assunzione del suo apporto energetico (inteso qui come mero contenuto di zuccheri).
È nel 2004 che Nestlè ha subodorato in questa tendenza l’opportunità di fare il salto in avanti: sugli scaffali dei supermercati hanno iniziato a diffondersi le versioni al matcha e alla patata viola; nel 2014, grazie alla partnership con lo chef Yasumasa Takagi, hanno preso vita le varianti alla frutta e al tè.
Noi, però, freniamo l’entusiasmo: sembra che i vertici nipponici di casa Nestlè abbiano reso noto l’inoppugnabile, crudele rifiuto all’esportazione dei loro piccoli gioielli anche qua, da noi.
Dove Kit Kat, purtroppo, vuol dire solo una cosa.
[Crediti | Link: Wired]