In Irlanda ci sono circa 7,3 milioni di capi di bestiame e poco meno di 5 milioni di abitanti. Facile immaginare come, in un contesto di questo tipo, l’agricoltura, la pastorizia e l’allevamento abbiano di fatto plasmato l’economia e la cultura, contribuendo a creare una visione che ancora oggi domina l’immaginario comune e perfino al mitologia locale. Le mucche, tuttavia, al giorno d’oggi simboleggiano anche qualcos’altro – un atroce dilemma della crisi climatica. Il settore primario rappresenta, di fatto, la prima voce nella tabella delle emissioni nazionali: le aziende agricole sono responsabili del 37,5% delle emissioni complessive, la percentuale più alta dell’Unione Europea, e la maggior parte di esse proviene proprio dal metano associato con gli allevamenti.
Secondo il più recente piano governativo il settore primario è chiamato a ridurre le proprie emissioni del 25% entro il 2030 – un taglio dolorosamente necessario che, di fatto, potrebbe determinare il fallimento di numerose aziende agricole e addirittura costringere all’abbattimento di centinaia di migliaia di mucche. Gli operatori della filiera, com’era prevedibile, hanno dunque accusato il governo di coalizione: se fino a poco tempo fa le autorità governative avevano infatti incoraggiato gli allevatori a espandersi per sfruttare la fine delle quote europee sul latte, spingendoli a investire in nuove attrezzature e ad ampliare le proprie mandrie; solo per ora trovarsi a dover tornare sui propri passi ridimensionandosi.
La speranza degli agricoltori di poter riuscire a ridurre le emissioni senza abbattere i propri capi, tuttavia, sembra destinata a rivelarsi vana. “Sono stati avanzati vari metodi provati e non sperimentati per suggerire il rispetto del tetto massimo di emissioni del 25%” spiega a tal proposito John Sweeney, esperto di clima alla Maynooth University. “Solo una riduzione dei numeri può raggiungere gli obiettivi a breve termine”. Secondo Sweeney, l’Irlanda dovrà ridurre la propria mandria nazionale di almeno un milione entro il 2030.