C’è una camera a gas schiacciata tra Alpi e Appennino. Non che sia una novità, beninteso: in particolare negli ultimi giorni, però, la qualità dell’aria in Pianura Padana è stata a più riprese denunciata tanto dalle testate giornalistiche generaliste quanto dalle vetrine dei social, con inquietanti mosaici che mostrano scale di rosso scuro e granata.
Ci è utile, per fare il punto della situazione, valutare qualche dato: la centralina Arpa di via Senato, a Milano, è arrivata a segnalare livelli di Pm2.5 pari a 118 microgrammi/mc come media giornaliera, un valore 24 volte più alto dei livelli raccomandati dall’Oms su base annuale, e 136 di Pm10. Si tratta, secondo la lettura di Legambiente Lombardia, del “picco di una crisi di inquinamento i cui livelli non sono mai stati eguagliati dal gennaio 2017″.
Per carità, come accennato in apertura di articolo la geografia non aiuta: si tratta una situazione innatamente difficile, tuttavia, che viene inevitabilmente esacerbata dalla fitta costellazione di allevamenti intensivi che punteggia la Pianura Padana, Lombardia in particolare.
Quanto pesano gli allevamenti intensivi sull’inquinamento in Pianura Padana?
Vale la pena notare, prima di addentrarci nella proverbiale ciccia della questione, che l’Italia è di fatto il peggiore paese in Europa per quanto concerne le morti premature da inquinamento atmosferico, con 46.800 decessi all’anno da PM2.5, altri 11.300 da NO2 e 5,100 da O3 (dati, questi ultimi, documentati dall’Agenzia europea per l’ambiente).
Le rilevazioni degli ultimi giorni, in altre parole, sono dunque la fioritura più appariscente di un problema che esiste e persiste da tempo; ma che solo nelle ultime ore (a partire dal 20 febbraio, a essere precisi) ha visto le autorità lombarde avviare le attese misure antismog (già messe in campo, è giusto notarlo, da Emilia Romagna, Veneto e Piemonte).
Il peso della morfologia territoriale non è, come accennato in apertura di articolo, un elemento trascurabile; ma è giusto valutare la provenienza degli agenti inquinanti “intrappolati” nel bacino definito da Alpi e Appennino. “Gli allevamenti intensivi, insieme al riscaldamento, sono tra i principali responsabili dell’aumento dei livelli di inquinamento da Pm2,5″ spiegano da Greenpeace.
I numeri, nella loro fredda efficienza, non mentono. “A tal proposito è emblematico il nostro studio realizzato in collaborazione con Ispra, che indaga i settori che hanno maggiormente contribuito all’inquinamento da Pm in Italia. Nel 2018 i settori più inquinanti sono risultati essere il riscaldamento residenziale e commerciale (36,9%) e gli allevamenti (16,6%): dati alla mano, insieme questi due settori sono la causa di quasi il 54% del Pm2,5 nazionale. Seguono i trasporti stradali (con il 14%) e le emissioni dell’industria (10%)”.
Vale la pena notare, in chiusura, che la sola Lombardia vanta di fatto il 90% degli allevamenti suinicoli nazionali, con il 50% del totale dei capi: dati che inevitabilmente fanno sorgere pruriginosi dubbi su quali condizioni di grossolano sovraffollamento si trovino a vivere i suini in questione. La questione sta assumendo connotati grotteschi – quasi si trattasse di un esperimento sociale per scoprire fino a che punto siamo disposti, collettivamente, a girarci dall’altra parte nel nome della convenienza.