Il famigerato “salto di specie” è ormai una notizia vecchia, è vero; ma il ritrovamento di sempre più mammiferi morti per influenza aviaria non può fare a meno che risvegliare il sottovalutatissimo dibattito su quella che, dati alla mano, è di fatto la stagione epidemica più grave di sempre. Dopo la segnalazione dalla California, dove le autorità locali hanno riscontrato la presenza del virus in una lince rossa, e le lontre e le volpi del vicino Regno Unito; la lista dei casi si allunga di quattro carcasse di foche rinvenute lungo la costa della Scozia.
Il timore della comunità scientifica e il pericolo pandemia
“Tre delle quattro foche del porto e una delle due foche grigie del 2021 e dell’inizio del 2022 sono risultate positive per HPAIV H5N1″ si può leggere in una nota redatta dagli esperti del Scottish Marine Animal Strandings Scheme (SMASS). “Nel futuro prossimo analizzeremo nuovi casi inerenti a cetacei per ulteriori prove di spillover“.
Un disastro che pare ormai ben avviato sulle rotaie: quello dell’influenza aviaria è un virus altamente instabile e soggetto a mutazioni, che pare ormai essersi evoluto abbastanza da trovare “facile” contagiare i mammiferi. La possibilità che possa mutare ancora e diventare pericoloso anche per noi bipedi sprovvisti di piume e (per la maggior parte) di pelo è ancora relativamente remota, ma anche decisamente concreta; e se ciò dovesse accadere allora ecco che potremmo trovarci nuovamente a fare i conti con una nuova pandemia.
Il primo campanello d’allarme è arrivato da un allevamento di visoni in Spagna, dove più di 50 mila esemplari sono stati soppressi. Il parere delle autorità locali è che gli animali siano stati infettati dopo essere entrati in contatto con alcuni gabbiani selvatici che erano in grado di accedere al loro cibo. “È ancora difficile dirlo con certezza” ha commentato a tal proposito Ursula Höfle, professoressa di ricerca presso l’Università di Castilla “ma le prove della trasmissione da uccello a mammifero e da mammifero a mammifero sono decisamente crescenti”.
L’ombra del pericolo per gli esseri umani, nel frattempo, si fa leggermente più minacciosa. “Stiamo assistendo a un piccolo cambiamento nella diffusione di questa infezione e non dovremmo rimanere inattivi, considerando quanto è accaduto con il Covid” ha spiegato il prof. Ian Brown, direttore dei servizi scientifici presso l’Agenzia per la salute degli animali e delle piante (Apha).
Il direttore generale dell’OMS, Tedros Adhanom Ghebreyesus, offre un approccio più pragmatico; e pur riconoscendo che la situazione necessiti di essere “monitorata da vicino” sostiene che il rischio per l’uomo rimane ancora basso. Come accennato in precedenza, la comunità scientifica è d’accordo nel sostenere che sono necessarie ancora diverse mutazioni prima che la trasmissione da uomo a uomo diventi un rischio concreto, ma l’impatto – se ciò dovesse accadere – potrebbe essere enorme. I dati dell’OMS parlano chiaro: degli 870 casi di influenza aviaria negli esseri umani degli ultimi 20 anni ben 457 sono stati fatali.