C’è chi dice di aver visto almeno una volta sui social un video di bancarelle di street food indiano dalle condizioni igieniche a dir poco inquietanti, e chi mente. Quello che forse non sappiamo è che negli ultimi anni il fenomeno ha assunto una piega religiosa e culturale notevole in India, dove la minorità musulmana di certi Stati è stata sovente bersaglio di attacchi mediatici (su basi spesso poi smentite). Ora l’Uttarakhand e l’Uttar Pradesh, due Stati del Paese asiatico, hanno pensato di mettere in atto misure severe per evitare che il cibo venga contaminato con sputo, urina o sporcizia dai commercianti. Ed è scattata la polemica religioso-culturale.
Il fenomeno dello street food indiano sul web
Avrete beccato di sicuro almeno una volta un reel che riprende un venditore ambulante indiano che “lava” le verdure nell’acqua putrida o condisce del pane infilando la mano senza guanto e quasi l’intero braccio dentro ciotole di condimenti di dubbia pulizia. Su piattaforme come Instagram queste immagini ormai comuni generano due correnti di opinioni (non necessariamente opposte): da una parte, la seria preoccupazione per la sicurezza alimentare nel Paese, dall’altra il parallelo dilagare di sentimenti negativi verso l’India e la sua cultura alimentare. Non siamo qui a fare i paladini della giustizia per l’una o l’altra fazione (di certo non ci collocheremo nella seconda categoria), ma a darvi qualche dato e novità in più sul fenomeno.
La “guerra dello sputo”
Prima di arrivare ai più recenti sviluppi, dobbiamo partire da una premessa, ovvero che questa faccenda gastro-sanitaria ha assunto sempre più le tinte dello scontro religioso e culturale. Ciò vale soprattutto in quegli Stati dell’India dove la comunità musulmana è minoritaria ed è stata accusata più volte di contaminare il cibo delle persone induiste. Anche in piena pandemia da COVID-19 erano stati fatti girare diversi video che incolpavano venditori musulmani di sputare nel cibo per diffondere il virus. I denuncianti hanno persino coniato un’espressione specifica: spit-jihad o thook-jihad, dai termini rispettivamente inglese e hindi per “sputo”. Spesso e volentieri, però, si scopriva in seguito che i contenuti usati per additare negativamente la comunità musulmana erano in realtà falsi.
Nuove misure contro la contaminazione in due Stati indiani
Arriviamo adesso alla notizia. I due Stati indiani dell’Uttarakhand e dell’Uttar Pradesh hanno annunciato l’implementazione di misure severe per evitare che il cibo venduto venga contaminato con sputo, urina o sporcizia dai commercianti. Si parla di sanzioni fino a 100.000 rupie indiane (circa 1000 euro) e dell’incarceramento per anche dieci anni. Andando indietro allo scorso luglio, la Corte suprema dell’India aveva sospeso altre direttive emanate dai due governi già citati, che richiedevano ai venditori degli stand alimentari lungo la via del pellegrinaggio di Kanwar Yatra di esibire in maniera chiara i loro nomi e dati personali.
Il partito al potere in queste regioni è il Bharatiya Janata Party, di ideologia nazionalista indù. Collegando tutti i puntini, l’opposizione e altre personalità schierate in favore della comunità islamica si sono dichiarate fortemente contrarie all’introduzione di simili norme, che attaccherebbero più o meno implicitamente la minoranza islamica sviando l’attenzione popolare da problematiche più impellenti, come la disoccupazione e l’inflazione alle stelle.
Certo è che il Food Safety and Standards Authority, l’ente indiano per la sicurezza alimentare, ha stimato che nel Paese il cibo contaminato causa 600 milioni di infezioni e 400.000 morti all’anno, in un Paese in cui culturalmente il concetto di igiene e sicurezza alimentare è, per mille e una ragione, ben diverso dal nostro. Qual è allora il confine tra la cultura, la religione e l’oggettività di certi dati? E quanto le misure annunciate possono davvero avere un impatto sul problema? Vi aggiorneremo ai prossimi risvolti.