In Canada un contadino cambia la storia dei contratti: l’emoji con il pollice in su vale come firma

Una semplice emoji con il pollice in su è costata a un contadino canadese più di 80 mila dollari per violazione di contratto.

In Canada un contadino cambia la storia dei contratti: l’emoji con il pollice in su vale come firma

Mettetevi comodi, perché quella che vi stiamo per raccontare è una storia di contratti, di incomprensioni e di emoji con il pollice in su – un’emoji che, in un modo o nell’altro, entrerà nella storia. Per prima cosa attiviamo la nostra macchina dello spazio-tempo: siamo in Canada, marzo 2021. La South West Terminal (d’ora in avanti riassunta in SWT) contatta i fornitori di grano della regione per informarli che desidera acquistare lino al prezzo di 17 dollari per staio con consegna nei mesi di ottobre, novembre e dicembre di quello stesso anno. Tra i contadini contattati c’è anche Chris Achter, con cui la SWT arriva a redigere un contratto che prevede la vendita di 86 tonnellate di lino per – come accennato – 17 dollari per staio. Fin qui tutto bene, no?

Occhio alle emoji: un pollice in su potrebbe trascinarvi in tribunale

agricoltura braccianti

Le cose sembrano proseguire come potreste immaginare – il rappresentante di SWT che si è occupato di contattare il nostro protagonista prepara un contratto e invia una foto di quest’ultimo ad Achter insieme al messaggio “Per favore, conferma il contratto”. Achter si limita a rispondere con un’emoji con il pollice in su: un segnale apparentemente eloquentissimo, ma che ha innescato una complicata bega legale che potrebbe condannare il contadino a pagare 82 mila dollari per violazione di contratto.

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Per farvela semplice, l’emoji con il pollice in su non era eloquente come probabilmente avete immaginato. A una lettura distratta e frettolosa potrebbe infatti risultare che il pollice in su sia un cenno di assenso, di conferma, un “il contratto va benone”; ma non è stato affatto così. Achter, in altre parole, non ha mai consegnato il lino in questione.

La vicenda, come accennato, ha preso la perigliosa strada dei tribunali. Come riportato dalla CNN, che a sua volta ha citato i documenti del caso, il nostro protagonista avrebbe dichiarato che l’emoji del pollice in su ha semplicemente confermato che ho ricevuto il contratto”, ma non era affatto una “conferma che fossi d’accordo con i termini. I termini e le condizioni completi del contratto non mi sono stati inviati e ho capito che il contratto completo sarebbe seguito via fax o e-mail da rivedere e firmare”.

La difesa ha rincarato la dose in questo senso, spiegando che “consentire a un’emoji con il pollice in su di significare identità e accettazione aprirebbe le porte a una miriade di casi di interpretazione sul significato di varie emoji diversi”. Ve la facciamo semplice – se un pollice in su dovesse avere lo stesso valore di una firma, i tribunali si troverebbero poi inondati di casi simili.

La tesi dell’avvocato di Achter, tuttavia, non è stata sufficiente a convincere il giudice. Poco utili, per di più, si sono dimostrati i vecchi contratti stipulati tra lo stesso Achter e la SWT, con il nostro protagonista che, nel confermare i dettagli, avrebbe risposto “Ok”, “Yup”, o “Va benone” – forme diverse dall’emoji incriminata. La sentenza, tuttavia, ha finito per condannare Achter: ” A mio avviso, uno spettatore ragionevole che conoscesse tutti i retroscena giungerebbe alla comprensione obiettiva che le parti hanno raggiunto un consenso proprio come avevano fatto in numerose altre occasioni”.

In definitiva, Achter dovrà pagare 82 mila dollari più interessi per non avere consegnato il lino. Morale della storia? Ragazzi, piuttosto mandate un – fastidiosissimo – vocale, ma basta affidarsi alle emoji.