A chi capita, per lavoro o per passione, di parlare e di studiare il vino sarà certamente capitato di incappare nella dicotomia maschile-femminile: il cosiddetto vino maschio, per intenderci, è tendenzialmente il rosso di pieno corpo, tannico e anche severo; quello più femminile è più profumato, magari con un residuo zuccherino e un po’ ruffiano. Badate bene – si tratta di un paradigma che nella migliore delle descrizioni potremmo definire superato o frustrante, ma che a oggi ancora costituisce il pervasivo tessuto dell’opinione comune. La prova è quanto andato in onda nelle ultime ore al Tg2.
Chiaro, è evidente che ci sia una certa comodità nel declinare il vino su questi binari – la stessa comodità del pensiero già confezionato, facile da maneggiare, che permette una (s)conveniente catalogazione e che soprattutto assolve dal confronto con la realtà, dove di fatto non esiste un bere “al maschile” o “al femminile” (vale la pena notare, tra parentesi, che ad esempio a bere grappa in Italia sono anche e soprattutto le donne), ma esiste piuttosto un sessismo subdolo che in questa concezione binaria ci sguazza ampiamente.
Botta e risposta tra stereotipi e luoghi comuni
Arriviamo a noi, dunque. Al Tg2 è intervenuta Antonella Boralevi, scrittrice: “Le donne bevono come prima fumavano una sigaretta, bevono per darsi un tono”. Non è chiaro, a onore del vero, per quale motivo le donne dovrebbero darsi un tono. “Non abbiamo bisogno del bicchiere di vino per sapere di essere di valore” ha continuato poi Boralevi, “meglio una piccola dose e soprattutto mai bere da sole in casa”. Eh no, guai: che razza di angelo del focolare sarebbe uno che si concede un calice di Prosecco a fine giornata lavorativa?
A Boralevi potremmo concedere il beneficio del dubbio: le sue parole, da un certo punto di vista, potrebbero essere interpretate come un vago messaggio da riportare alla lotta alla solitudine. La risposta di Giorgio Calabrese, presidente del Comitato nazionale sicurezza alimentare, passa come un carro blindato su ogni pretesa di malinteso: “Le donne, metabolicamente, hanno un’enzima minore: se gli uomini possono bere un bicchiere, le donne è meglio che ne prendano mezzo”. Boralevi incassa e conferma: “Ecco, appunto”.
Ciliegina sulla torta è l’intervento di Alessandro Scorsone, celebre sommelier e maestro cerimoniere della presidenza del Consiglio: secondo la sua lettura il vino è “uno straordinario mezzo per conoscere le persone e soprattutto per conquistarle, ecco perché alle donne piace sempre quando viene servito un calice di vino”. Chissà che magari non apprezzino anche il non essere comunicate come zuccherate nuvolette che non attendono altro che essere “conquistate” dall’uomo con la U maiuscola.
Amareggiati sì, sorpresi diremmo proprio di no. Al di là di ogni frivolezza, di ogni battuta, ciò che è emerso al Tg2 è l’eco dell’opinione comune, di una retorica dall’eco lunga e decisa che ciclicamente, di solito ogni 8 marzo, viene nascosta sotto una macchia solenne e ipocrita di rossetto sul volto.