L’altra sera mi sono imbattuto nel Ristorante degli chef, il talent Rai che sta battendo tutti i record: sono poche le trasmissioni partite così male. Ho indugiato sul programma qualche minuto ed è vero che forte è l’impressione di déjà vu, con praticamente tutto identico agli ormai innumerevoli format e sopra tutti al primevo Masterchef. Stesse postazioni, stesse sfide, stesse conversazioni, stessa struttura, stessi tipi umani, tutto uguale.
Ma scenografie e meccanismi fotocopia in altri ambiti non si sono dimostrati letali: The Voice è sostanzialmente X Factor, Italia Got Talent e Tu sì que vales manco li distinguo.
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Quello che secondo me invece è mortale, è che gli autori continuino a riproporre solo un tipo di personaggio: lo chef severo ma giusto. Sempre quello. Tutte le volte lo stesso. Che lo interpreti Cracco o Berton, la Potì o Knam, lo stereotipo è sempre il medesimo. Severo, ma giusto (e qualche volta un po’ stronzo).
Secondo me c’è tanta pigrizia, dietro. I tre giudici de Il Ristorante degli chef sono tre ottimi professionisti e tre persone diversissime una dall’altra e dai loro altri colleghi che fanno televisione: quelle differenze vanno esaltate, devono migrare dalla persona al personaggio fortificandolo, se no Isabella Potì finisce per assomigliare ad Antonia Klugmann quando non hanno affatto la stessa personalità.
Se Cannavacciuolo ha spaccato così tanto, è perché al solito stereotipo del severo ma giusto ha saputo aggiungere l’X factor, cioè la napoletanità, quell’empatia speciale che solo a Napule sanno fa’.
L’omologazione è una scorciatoia ed è amata dai pigri: è il modo più veloce per raggiungere i primi risultati. Ma per andare avanti, in TV, come in cucina, ci vuole identità. Se no finisci a fare uno share che nemmeno LEU alle politiche.