Anni, sì, perché in un modo o nell’altro vogliamo lasciare trasparire il nostro ottimismo di fondo. La realtà è semplice: il futuro della produzione di caffè, così come quello del settore primario in termini ben più generali, è obbligatoriamente chiamato a confrontarsi con le sfide innescate dal cambiamento climatico. Pensiamo al caso dell’olio di oliva, i cui fortissimi rincari dell’ultimo biennio sono in primo luogo causati dalla morsa della siccità nelle principali zone produttive; o ancora ai rapporti inerenti alla più recente vendemmia che parlano di una mole quantitativa arenata ai minimi storici.
Il mondo del caffè, dicevamo, non è ovviamente esente da queste minacce: non è un caso, ad esempio, che alcuni dei profili più importanti del settore – Starbucks, per fare un esempio pratico – siano attualmente già impegnati nello sviluppo di particolari varietà di semi resistenti all‘imperversare del cambiamento climatico. Sforzi lodevoli, è chiaro: ma nel frattempo, mentre galleggiamo in questo limbo di incertezza, pare quasi cosa fatta che il futuro del caffè così come lo intendiamo abbia gli anni contati.
Caffè naturale e la sfida del futuro, secondo il Wall Street Journal
Secondo un più recente studio del Wall Street Journal, che ha preso in esame dati statistici e trend di mercato (anche se, è bene notarlo, non è chiaro se abbia valutato del grado di progresso di esperimenti come quello di casa Starbucks o se effettivamente sia a conoscenza dei risultati attualmente ottenuti dallo stesso), il caffè come lo conosciamo oggi, che potremmo definire “naturale”, sarà gradualmente ma certamente sostituito da quello coltivato in laboratorio.
La faccenda, il giorno in cui approderà sulla tavola rotonda dei Paladini della Sovranità Alimentare, causerà senza ombra di dubbio una crisi di portata nazionale: con la carne coltivata ci siamo scaldati e, perché no, anche un poco divertiti; ma guai quando si va a toccare uno dei presunti simboli della tanto decantata italianità!
Ma torniamo a noi: numeri alla mano una pianta di arabica produce in media tra i 450 e i 900 grammi di caffè all’anno, che significa che chi è solito bere due tazzine al giorno ha bisogno della produzione di almeno venti alberi di caffè. A questa equazione va tuttavia aggiunto il peso della deforestazione di massa, le condizioni di povertà dei lavoratori e il fatto che, a causa dell’inquinamento innescato dalle emissioni nocive, la metà dei terreni destinati alla coltivazione saranno inutilizzabili entro il 2050. Una profezia, quest’ultima, che non ci è nuova: lo stesso Andrea Illy, presidente dell’omonima azienda, aveva ventilato la stessa proporzione appena una manciata di mesi fa.
La lettura del Wall Street Journal si limita, dunque, a mettere insieme i cosiddetti pezzi del puzzle: secondo il quotidiano finanziario almeno una mezza dozzina di compagnie del settore stanno lavorando con biotecnologie con l’obiettivo di rimpiazzare i prodotti naturali con un qualcosa in grado sì di mantenere la stessa intensità e complessità e caratteristiche di gusto, ma privo delle fragilità legate alle condizioni climatiche.