Ieri d’un tratto una notizia uscita sulla rivista specializzata “Fast Company” e ripresa da Repubblica, Gambero Rosso, Wired e altri mi balza agli occhi: pare che Ikea voglia aprire dei ristoranti.
Proprio dei ristoranti senza i mobili attorno.
Cioè: magari i mobili ci saranno, se non altro per sedersi, ma il cuore dell’affare sarà il cibo (quei diavoli di Dissapore sapevano già tutto).
Esclamo: fan! Che in svedese significa: diamine! Ribadisco: jösses! Che in svedese vuol dire: perbacco! Aggiungo: Soderhamn! Che non ha alcuna traduzione in italiano ma è il nome di una città nonché di un divano a tre posti.
L’articolo originale in sostanza dice alcune cose abbastanza pazzesche:
che “il cibo di Ikea vale 1,8 miliardi di dollari”; che “il 30% dei clienti abituali si recano da Ikea semplicemente per consumare un pasto”; che “nel 2016 Ikea ha servito 650 milioni di commensali” (dal che evinco che lo scontrino medio è 2,80 dollari, quindi tanti prendono solo il wurstel Korv o il dolce verde giunto da un altro pianeta).
Hai capito. Quasi due miliardi.
Per darvi un’idea, nel 2015 McDonald’s ha fatturato circa 25 miliardi di dollari.
Cioè: le polpettine coi mirtilli e i roll di salmone –che sono apparentemente del tutto marginali rispetto alle vendite di Billy e Tromso– valgono un quattordicesimo del più grande impero planetario della ristorazione.
Cosa vuol dire ciò?
Non ne ho la più pallida idea. Lascio la risposta agli economisti.
L’unica cosa che ne deduco è questa: oggi come oggi non c’è più bisogno di scaffali per i libri né di mobiletti per lo stereo. E forse nemmeno di cucine, visto che siam sempre fuori.
E allora quei diavoli degli svedesi hanno pensato: se produciamo cucine e apriamo ristoranti, in un modo o nell’altro la gente verrà da noi.
Si chiama “correlazione inversa”, me la spiegò il professore di matematica finanziaria con un esempio: “Producete profilattici e biberon e, comunque vada, saranno tutti vostri clienti”.
[Crediti | Link: Fast Company, Repubblica, immagine: Sale & Pepe]