A Report sembrano averci preso gusto, e possiamo ben capire il perché: è la quarta puntata che il programma condotto da Sigfrido Ranucci dedica al tema caffè a Napoli, e puntualmente si è scatenato un putiferio. Il canovaccio è sempre quello con svariati baristi napoletani orgogliosi del loro prodotto e della loro formazione “di strada” da una parte, e dall’altra gli esperti del settore, tecnici e formatori che identificano nel loro operato qualsiasi tipo di efferatezza possibile: dalla scarsa pulizia delle macchine perché così il caffè “prende sapore”, al prodotto lasciato macinato a ossidare sembra non mancare nulla.
Una situazione che per gli amanti del caffè è da film dell’orrore, e che potrebbe ben giustificare l’ardito titolo del servizio di Bernardo Iovene “La Repubblica della ciofeca”. Ma tra i molti interventi, ce n’è uno che ci ha lasciati particolarmente perplessi, quello di Mario Rubino, presidente di Kimbo, che si lancia in una spericolata analisi scientifica sul perché ai napoletani il caffè debbia piacere proprio così.
Il caffè come la parmigiana
Se secondo gli esperti interpellati da Report il caffè napoletano è in buona parte tostato troppo scuro, finanche bruciato, Rubino ci tiene a precisare: arruscato, non bruciato. Un concetto ben diverso, che spiega con qualche esempio. Primo fra tutti la parmigiana di melanzane che, come tutte le cose le forno, è più buona laddove è sbruciacchiata; il ragù -immaginiamo quello napoletano e non bolognese- il cui abbondante fondo “azzeccato”, attaccato, regala sapore alla lunga cottura.
E poi il cornicione della pizza, e la genovese “ben rappresa”. Abbiamo capito, l’umami sviluppato dalla reazione di Mallard è buono, anche se, e non ce ne voglia il presidente di Kimbo, non è certo una cosa strettamente napoletana, ma è col prosieguo dell’intervista che si sfocia nella fantascienza.
Napoletani geneticamente modificati
Sempre secondo Rubino, questa familiarità coi sapori forti ha portato i napoletani ad avere papille gustative “geneticamente modificate” per percepire quei gusti in maniera diversa e, dichiara, di stare lavorando con la neurofisiologia per dimostrare questa cosa. Non vorremmo essere nei panni dei neuroscienziati a cui è stato affidato questo studio, perché provare la tesi del signor Kimbo potrebbe essere molto complicato.
Innanzitutto, tenendo conto che un il consumo di espresso si è diffuso dopo il secondo dopoguerra, non ci sono certo i tempi per una modifica genetica di questo tipo, qualcosa che dovrebbe ricordare l’incapacità di alcune popolazioni del nord Europa di percepire la puzza di pesce marcio, dovuta al consumo di pesce fermentato (vedi l’hakarl, lo squalo fermentato islandese), che risale però a secoli fa, e si tratta comunque della capacità di sentire di meno certi composti aromatici, non di poterli apprezzare diversamente da altri.
Rubino, nel suo pentolone mette a pippiare indistintamente odori e sapori, note tostate e difetti evidenti, traendo conclusioni che porterebbero i poveri suoi concittadini ad apprezzare caffè che sanno di copertone -per usare un descrittore di Andrej Godina, uno degli esperti chiamati da Report- perché lo dice la scienza. Sarebbe più corretto parlare di stili e abitudini di consumo, già sappiamo che al nord si preferiscono tostature più chiare e al sud più scure, per giustificare una sacrosanta differenza di gusti, sempre al netto delle scorrette pratiche di caffetteria.