I figli dei pescatori non vogliono continuare l’attività di famiglia

Il 40% dei giovani pescatori, figli e nipoti di chi già padroneggia il mestiere, vuole abbandonare la nave: ma perché?

I figli dei pescatori non vogliono continuare l’attività di famiglia

Lo stato di salute del settore della pesca, così come restituito dalla più recente indagine Confcooperative Fedagripesca, è quella di un quadro punteggiato (compromesso?) da sintomi numerosi e preoccupanti. Parliamo di numeri, freddi ma affidabili: si calcola che, a oggi, il 70% dei pescatori segua la via del mare per tradizione famigliare, ma che il 40% delle giovani generazioni, pur potendo contare su di un nonno o di un padre nel comparto, decide di dedicarsi ad altro.

Due direttrici semioticamente simili ma che, sfaldandosi, lasciano intendere una ferita pericolosamente emorragica: la pesca è evidentemente – lo dicono i numeri – un settore dove il mestiere viene tramandato come eredità di famiglia, ma i più giovani sono sempre più lontani, o disinteressati, dal raccoglierla. Il rischio è che venga meno la linfa del ricambio generazionale: al di là di questa considerazione più immediata, però, viene da chiederci per quale motivo, effettivamente, i figli dei pescatori non vogliano più prendere il mare.

Pesca, tra tradizione di famiglia e denaro: i connotati di una crisi

tonno pesca

Prendiamo ancora in esame un paio di dati provenienti dalla stessa indagine citata in apertura di articolo: nel corso dell’ultimo decennio il settore della pesca ha visto fuoriuscire il 16% dei pescatori imbarcati; oggi sono 22mila, di cui 19mila a tempo pieno, a fronte dei 30mila di dieci anni fa. Sono più che eloquenti, a tal proposito, le parole di Paolo Tiozzo, vicepresidente Confcooperative Fedagripesca, che nel sottolineare la sempre maggiore difficoltà nel “formare gli equipaggi” sottolinea l’importanza fondamentale dell’investire “in corsi di studio dedicati all’economia del mare”.

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La lettura da Tiozzo è certamente condivisibile, ma ancor di più è comprensibile: se c’è necessità di un urgente ricambio generazionale la soluzione immediata (e per certi versi, concedetelo, anche un poco scontata) è quella della formazione. Bella parola, quest’ultima, che ha il profumo del futuro e la solennità tipica delle promesse a lieto fine: siamo certi, però, che sia sufficiente?

Il presentimento è che il settore della pesca, a oggi, stia poggiando su di basi pericolosamente precarie. Una rapida occhiata alla cronaca dell’ultimo biennio racconta di una lunga serie di proteste più o meno accese nei porti di tutta Italia, unite nel coro comune della denuncia al caro carburante che avrebbe mutilato pesantemente il margine di profitto dei pescatori; e allargando lo sguardo al più ampio contesto europeo ecco spuntare, come un bubbone infiammato, il “No” votato dall’Italia in occasione della messa al bando della pesca a strascico, pratica grossolana e pericolosa che consiste nel trascinare sul fondo marino una grande rete in modo tale da assicurarsi il “bottino” più grande possibile con un colpo solo, annientando il fondale e innescando, nei casi più gravi, il processo di desertificazione.

In altre parole, la pesca a strascico equivale un po’ alla proverbiale zappa sopra i piedi. Lo Stivale fu di fatto l’unico Paese a esprimere voto contrario: il suo “No” fu solidamente impostato sulla difesa dei posti di lavoro. Stando ai numeri lasciati trapelare dagli enti del settore (che, beninteso, avranno legittimamente intenzione di fare i propri interessi) il divieto alla pesca a strascico avrebbe messo a repentaglio l’occupazione di circa 7mila persone e gli introiti del 20% della flotta peschereccia italiana. Inevitabile, a questo punto, chiedersi per quale motivo un intero settore produttivo sia così legato a una pratica notoriamente dannosa alla sostenibilità del settore stesso; e soprattutto chiedersi se la formazione, comprensibilmente consigliata da Tiozzo, sia davvero sufficiente a salvare la barca.