“Basta soldi pubblici alle fabbriche di carne”. Questo lo striscione di Greenpeace che campeggiava ieri mattina davanti al Ministero delle Politiche Agricole e Forestali insieme alla riproduzione di un pianeta malato, con tanto di mascherina, e un “tappeto degli orrori”, con immagini di allevamenti intensivi e foreste che bruciano.
Sono i simboli scelti da Greenpeace per denunciare gli allevamenti intensivi e chiedere che queste attività non vengano più finanziate con denaro pubblico, che dovrebbe invece servire ad avviare una transizione radicale dell’attuale modello produttivo.
Il ministro Stefano Patuanelli ha incontrato Greenpeace e si è detto concorde sull’insostenibilità degli attuali livelli di produzione intensiva di carne e sulla necessità di avviare una transizione del settore, sottolineando inoltre l’eccessiva densità di allevamenti intensivi in alcune zone del Paese.
“Se la politica non aprirà gli occhi sulla necessità di superare il sistema intensivo di produzione di carne, ci attende un futuro ad alto rischio”, dichiara Simona Savini, campagna agricoltura di Greenpeace Italia. “Ora più che mai è necessario utilizzare i fondi pubblici della nuova Politica agricola comune (PAC) e del PNRR per sostenere produzioni ecologiche su piccola scala, piuttosto che maxi allevamenti intensivi che divorano il Pianeta”.
La zootecnia – si legge nel comunicato di Greenpeace – è infatti uno dei principali motori della distruzione delle foreste e della biodiversità, e può in questo modo favorire nuovi salti di specie (spillover) di virus dagli animali agli esseri umani.
“Chiediamo che le istituzioni, a partire dal Ministero delle Politiche Agricole, guardino in faccia la realtà e usino i fondi pubblici per favorire una svolta radicale nel modo di produrre il nostro cibo, senza ricorrere a false soluzioni per puntellare uno status quo che mostra già tutte le sue crepe, anche dal punto di vista economico, dato il reddito sempre più basso degli allevatori. Occorre produrre e consumare meno carne, ma di maggiore qualità, a beneficio della nostra salute, dell’ambiente e della dignità del lavoro dei produttori: gli scienziati non fanno che ripeterlo e faremmo bene ad ascoltarli”, conclude Savini.