I terreni dedicati al grano duro sono cresciuti di 40 mila ettari, ma ciononostante la produzione italiana nel corso del 2022 ha subito un calo di 1,5 milioni di quintali su base annua. Si tratta di quanto emerso dalla più recente analisi redatta dagli analisti di Cai – Consorzi Agrari d’Italia, dove si sottolinea come di fatto la capacità produttiva del nostro caro vecchio Stivale sia di fatto stata mutilata dall’imperversare della siccità e poi colpita dai rincari delle bollette energetiche (basti pensare, in questo contesto, che le aziende cerealicole sono in assoluto quelle che hanno subito l’incremento più salato) e dall’aumento dei costi dei concimi.
Se i limiti determinati dall’aumento dei costi di produzione sono però di natura prettamente pratica e possono essere ovviati, seppur con fatica e sacrificio, da pacchetti di sostegno e investimenti nella filiera, ciò che preoccupa gli agricoltori del Bel Paese sono le conseguenze del cambiamento climatico: i nostri lettori più fedeli ricorderanno, infatti, che le stime sul raccolto di grano duro indicavano un crollo netto già nel bel mezzo di questa estate, quando la morsa della siccità strozzava l’intera Penisola. Un disastro preannunciato, quello determinato dalla crisi idrica, che a oggi ancora necessità di una risposta concreta ed efficace.
La proposta di Cai, nel frattempo, è quella di “lavorare per aumentare la produzione italiana di qualità, anche attraverso investimenti lungo tutta la filiera, al fine di evitare che il nostro Paese continui a dipendere troppo dalle importazioni di prodotto dall’estero”.