Un po’ di verde nel grigio: un’idea che, come tutte quelle che si basano su antipodi tematici, suona proprio bene. Pensateci: la genuinità del lavoro manuale e l’astrattezza di quello d’ufficio, il rigoglioso contro lo sterile, la fertilità della terra contro l’aridità dell’asfalto – gli orti urbani promettono benefici sociali e nutrizionali che sembrano ben sposarsi con la concezione di una città più sostenibile, o più banalmente di una città del futuro. Una ricerca americana, tuttavia, ci ricorda che non è tutto oro quel che luccica, e arriva a concludere che la frutta e la verdura coltivate nelle fattorie o negli orti urbani hanno un’impronta di carbonio sei volte superiore quella dei colleghi “tradizionali”.
Lo studio, pubblicato sulla rivista scientifica Nature Cities, ha confrontato le impronte di carbonio degli alimenti prodotti in orti urbani e altre soluzioni simili a bassa tecnologia con le colture più convenzionali, prendendo in esame i dati di 73 fattorie “di città” in cinque Paesi. Numeri alla mano, si tratta del più grande (e ambizioso) studio di questo genere mai pubblicato: diamoci un’occhiata.
Orto urbano sì, orto urbano no: cosa dice la scienza
Prima di buttarci a capofitto nelle valutazioni del gruppo di studio, è meglio mettere un paio di puntini sulle i. Partiamo del presupposto che, in determinate condizioni, alcune coltivazioni urbane hanno di fatto eguagliato o superato le prestazioni dell’agricoltura convenzionale: i pomodori coltivati nel terreno di appezzamenti urbani all’aperto, tanto per fare un esempio, avevano un’intensità di carbonio inferiore ai colleghi che crescono nelle serre.
Vale poi la pena notare che, nel loro lavoro, i ricercatori hanno preso in esame tre tipi di siti di agricoltura urbana: le fattorie urbane, gestite in maniera professionale e naturalmente atte alla produzione alimentare; orti individuali che vengono lavorati da singoli giardinieri; e orti collettivi, che a differenza dei precedenti vengono seguiti da gruppi di giardinieri.
Per ciascuno dei siti analizzati gli scienziati hanno calcolato le emissioni di gas serra climalteranti associate ai materiali e alle attività dell’azienda agricola nel corso della sua vita; e poi confrontate con quelle dei prodotti derivanti dalla lavorazione tradizionale della terra. I numeri, come accennato in apertura di articolo, parlano chiaro: i cibi provenienti da orti urbani o simili emettevano una media di 0,42 chilogrammi di anidride carbonica equivalente per porzione, sei volte di più rispetto agli 0,07 kg di CO2e per porzione dei colleghi tradizionali.
“Questo insieme di dati rivela che l’agricoltura urbana ha emissioni di carbonio più elevate per porzione di frutta o verdura rispetto all’agricoltura convenzionale, con poche eccezioni” ha commentato Benjamin Goldstein, professore assistente presso la U-M’s School for Environment and Sustainability e coautore dello studio. Ma nel caso degli orti urbani da dove arriva tale impennata nelle emissioni?
“La maggior parte degli impatti climatici delle fattorie urbane è dovuta ai materiali utilizzati per costruirle, le infrastrutture stesse” ha spiegato Goldstein. “Queste fattorie di solito operano solo per pochi anni o un decennio, quindi i gas serra utilizzati per produrre questi materiali non vengono utilizzati in modo efficace. L’agricoltura convenzionale, invece, è molto più efficiente”.
Questa lettura, tuttavia, offre interessanti spunti di miglioramento: i ricercatori suggeriscono, ad esempio, di estendere la durata di vita dei materiali e delle strutture dell’agricoltura urbana, come le aiuole rialzate, le infrastrutture di compostaggio e i capannoni; di riciclare i materiali usati, come i detriti edili e i rifiuti di demolizione, donando loro una effettiva seconda vita; e impiegare del compostaggio che comprenda anche l’utilizzo dell’acqua piovana e delle acque grigie riciclate per l’irrigazione.