Gli Inglesi propongono di abolire il foie gras: e noi?

Il partito laburista inglese promette di mettere al bando l'importazione di foie gras: il paragone con l'Italia è obbligatorio, ma un po' doloroso.

Gli Inglesi propongono di abolire il foie gras: e noi?

L’idea arriva dal partito laburista: qualora dovesse risultare vittorioso alle elezioni generali del prossimo luglio, l’importazione di foie gras in Gran Bretagna sarà di fatto messa al bando. Importazione, sì: vale la pena notare che il controverso metodo di produzione del cosiddetto “fegato grasso” è stato vietato più di un decennio fa.

Numeri alla mano, la Gran Bretagna importa una mole di circa 200 tonnellate di foie gras all’anno: la proposta del partito laburista, stando a quanto lasciato trapelare da Steve Reed – potenzialmente futuro ministro dell’Ambiente inglese – in una breve intervista al Times, è quella di chiudere il rubinetto una volta per tutte.

Tra foie gras e mulini a vento

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“Il prossimo governo laburista si baserà su questo punto per porre fine alla crudeltà verso gli animali” ha spiegato Reed. Come certamente saprete a rendere notoriamente controverso la produzione di foie gras è la pratica dell’alimentazione forzata, impiegata per far ingrassare, per l’appunto, i fegati di anatre e oche facendo loro raggiungere una dimensione fino a dieci volte quella naturale, in una palese e violenta violazione del benessere animale.

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È bene sottolineare, prima di proseguire, che le importazioni della specialità di origine francese avrebbero dovuto essere messe al bando già un anno fa, con un disegno di legge che a onore del vero poteva già dirsi forte del sostegno di diversi membri del partito conservatore. Le pressioni esercitate dalle frange interne e più spostate verso la destra, tuttavia, avevano finito per fare accantonare i piani.

La mossa dei laburisti, in altre parole, può anche e soprattutto essere letta come una promessa di raccogliere le promesse infrante del governo attuale e di concretizzarle, allineandosi – nel caso più ristretto che stiamo trattando, e cioè quello dello stop alle importazioni – a una tendenza che già da qualche tempo serpeggia in Europa e nel resto del mondo. Pensiamo al Belgio, dove anche l’ultimo allevamento nelle Fiandre ha chiuso già da più di un anno; alla California, dove le autorità locali hanno ribadito l’importanza del divieto respingendo gli allevatori riuniti in protesta; o ancora al Giappone, dove si studia un’alternativa cruelty free ed economica.

Questo ci lascia obbligatoriamente a tracciare un paragone con quanto sta accadendo (o “non sta accadendo”, a dire il vero) in Italia: che d’altro canto, se è pur vero che il paragone può essere il ladro della felicità, crediamo che sbirciare verso il cortile del vicino di casa possa essere utile per evidenziare differenze di direzione e pensiero.

L’impressione, al netto di improvvisi e francamente sorprendenti capovolgimenti di fronte, è che il nostro Stivale – o la classe dirigente che lo “indossa”, per così dire – sia ancora lontano da battaglie di questo genere: pensiamo alla miopia con cui è stata uccisa sul nascere la filiera nazionale della carne coltivata, o alle dichiarazioni del ministro Lollobrigida che sostiene che, per ottenere una testimonianza diretta del benessere animale, sia sufficiente chiedere agli stessi animali. Forse un po’ difficile quando questi vengono alimentati a forza, ma a ognuno il suo: d’altro canto comprendiamo che, anziché misurarsi in battaglie dure e potenzialmente impopolari, sia più conveniente fare la guerra ai mulini a vento.