Oltre ogni racconto, oltre ogni tentativo di piegare gusto e forma alle proprie idee e viceversa, oltre il culto della personalità: la regola più puntuale, e pertanto inevitabile, per ogni ristorante che si rispetti è quella del numero. Non lo diciamo (solo) noi, badate bene; ma anche e soprattutto un certo Ferran Adrià.
Mr. elBulli è intervenuto a Roma nella seconda edizione di “Nutrire l’incontro“, una kermesse nata come piattaforma di confronto sulle discipline e l’arte della gastronomia proposta da Carles Tarrassó, gastronomo. Si è dunque parlato di strumenti politici e dottrina estetica, di fine dining e di regole imprescindibili quando si vuole fare ristorazione. Diamoci un’occhiata.
L’intervento di Adrià
È bene ricordare che, al netto di ogni buona intenzione o svolazzante ambizione, fare ristorazione significa in primis gestire un’attività commerciale; e che in quanto tale deve orientare il proprio fare, in termini squisitamente pragmatici, verso il profitto. Adrià ha ricordato questa realtà, a tratti ruvida ma certamente inevitabile, legandola all’animo più elitario dell’alta cucina. Come?
Beh, partendo dal presupposto che si tratta di un mestiere “altamente sfidante, roba da 5-6 campioni al massimo“. Piccoli numeri e molte idee. Ma sarà sufficiente? “A fronte di questo ristretto numero di cucine in grado portare innovazione alla cultura gastronomica mondiale, un mestiere elitario quindi, c’è un 99% di chef e cuochi che mediaticamente si presentano come creativi, spesso trascurando la cucina di tradizione“. Poi il colpo di coda.
“Ma la ristorazione è soprattutto fare impresa“. Il consiglio ai giovani? “Prima di essere creativi bisogna saper fare i conti, guidare la sostenibilità economica del ristorante”. Il resto è pregevole (o comunque può esserlo, con il giusto impegno ed esercizio), ma rischia di sfumare in una bilancia fitta di segni rossi. Il caso del Noma è un faro più che eloquente, in questo senso.