Il caso della diffida del Ministero dell’agricoltura al Caseificio Vegano (si potrà dire “caseificio”?) di Barbara Ferrante sta facendo discutere parecchio – e a ragione. Il governo ha sentenziato sull’utilizzo della parola formaggio, minacciando sanzioni pesantissime per l’azienda emiliana se non avesse rimediato subito (cosa che ha prontamente fatto). La squadra avversaria però non se le manda a dire e, dopo aver preso precauzioni, è tornata in campo con altri due giocatori: il CADAPA (Comitato Antispecista Difesa Animali Protezione Ambiente) e Paolo Bernini, vicepresidente dello stesso, nonché politico pentastellato. Diamo un’occhiata al contrattacco.
La risposta polifonica alla diffida
Rivediamo velocemente il caso. Qualche giorno fa il Caseificio Vegano, azienda dal nome autoesplicativo con sede a San Giovanni in Persiceto (Bologna), ha ricevuto uno spiacevole avviso: il Ministero dell’agricoltura diffidava dall’utilizzo della parola formaggio in relazione ai suoi prodotti, su etichette, descrizioni, pagine social, eccetera eccetera. Il motivo è “ovvio”: le preparazioni che escono dalle porte di questa azienda cruelty-free sono prive di ingredienti lattiero-caseari di origine animale (e questo il Caseificio lo mette ben in chiaro), per cui non possono fregiarsi del titolo di formaggi. Barbara Ferrante, titolare di questa piccola realtà, ha fatto subito sentire la sua voce, ammettendo di non potersi permettere una multa di circa 30mila euro e di dover quindi fare quanto richiesto dal governo.
Ma a distanza di pochi giorni arriva un nuovo reel sulla sua pagina (ora praticamente ripulita da qualsiasi post), pubblicato congiuntamente dall’azienda, dal Comitato CADAPA e dal politico-attivista Paolo Bernini, vegano e antispecista in seno ai Cinque Stelle. La video-risposta ironizza sul divieto imposto dal Ministero, censurando la parola formaggio sia in forma scritta (FORMAXXX) che sonora, bippando qualsiasi occorrenza del termine. L’attivista bolognese cita altri esempi lampanti di prodotti i cui nomi richiamano qualcosa che non sono (stando al ragionamento del governo): burro di cacao, latte detergente, salame dolce, a cui aggiungiamo noi gli ovvi casi del “meat sounding”, il cui divieto è stato impedito dall’Unione europea.
La titolare ribadisce la sua necessità di tutelarsi – motivo per cui i suoi formaggi ora si chiamano “forme” – ma dice anche che combatterà per quello che sta vivendo come “un attacco politico” e “una diffida assolutamente ingiusta e senza senso”. Anche la pagina di Food for Profit si era già espressa in merito alla faccenda schierandosi, come sempre in casi simili, a favore dell’azienda veg.