Dagli scarti della birra arriveranno latte vegano e pelle

Si può fare! Il percorso inverso da trebbie a bevande, proteine, fibre, tessuti è in fase di studio in tutto il mondo.

Dagli scarti della birra arriveranno latte vegano e pelle

La birra arriva dal malto di cereali, certo. È anche vero però che può essere prodotta a partire dagli scarti di qualunque cosa. Dalle croste di pane alle capsule del caffè, fino al panettone. Ma che dire del contrario? Cosa si può creare a partire dagli scarti della birra stessa? Alcune start up europee e internazionali hanno la risposta: latte vegano e pelle. Un nuovo reportage della BBC esplora gli usi più innovativi e sostenibili di questa poliedrica materia prima.

Non è un miracolo

latte

Gesù trasformava l’acqua in vino, o almeno così scrivono. La tecnologia oggi trasforma gli scarti della birra in qualcos’altro. Non è un riciclo, ma un vero e proprio ricondizionamento o upcycle che sfrutta e migliora il prodotto donandogli nuova vita e nuove prospettive. Le trebbie, i rimasugli delle bucce di orzo da cui si è ricavato il malto, costituiscono l’85% dei materiali di scarto nella produzione di birra. Un numero enorme che corrisponde a circa 200g per litro. E siccome i numeri per forza di cose diventano globali, la quantità si aggira sulle 37 tonnellate prodotte ogni anno.

Normalmente le trebbie vengono trasformate in foraggio per gli animali (70%), biogas (10%) e usi più o meno hippie come superficie di crescita per funghi e panificazione casalinga. Il resto, circa un quinto, finisce direttamente in discarica. Una bella botta per il pianeta, già soffocato dal surplus di rifiuti, ma anche vero peccato. Perché questi cereali esausti contengono composti organici e nutrienti dalle potenzialità molto interessanti.

Una di queste è proprio il latte o bevanda vegetale, in questo caso di orzo. Birrifici come Anheuser-Busch InBev (Belgio) e Molson Coors (Chicago) hanno sviluppato il proprio spin-off. Niente pinta ma tazza da colazione, e la schiuma si fa soltanto con il montalatte. Non è finita qui: il barley milk da trebbie conterrebbe il 25% di zuccheri in meno rispetto ad altre bevande da cereali. Scommettiamo che neanche Gesù ci sarebbe arrivato.

Proteine, tessuti, plastica

pelle-tessuto

Prima della creatività però ci vuole la tecnologia. Così nasce Upgrain, start up che nel 2024 ha lanciato un sistema di elaborazione delle trebbie in fibra edibile da installare direttamente in birrificio. Il co-fondatore William Beiskjaer sostiene che i cereali esausti siano “una specie di tesoro nascosto per sostenibilità e sana alimentazione”. Specie per quanto riguarda le proteine, fissazione del momento di tutta l’industria del food.

Il plant based da proteine delle trebbie è ancora in fase di lavorazione, ma le prospettive sono allettanti. Usare prodotti di scarto allevierebbe l’impatto enorme di monocolture (soia, pisello, frumento) destinate al foraggio animale. Nel 2024 una startup di Singapore finanziata da Heineken Asia ha sviluppato una tecnica di fermentazione delle trebbie per estrarre una proteina molto nutriente. Lo stesso vale per prodotti taboo come l’olio di palma, prima causa di deforestazione per molti paesi del mondo. La start up Äio di Tallinn, Estonia ha già creato un’alternativa sostenibile – sempre dalla birra.

Le possibilità non sono solo commestibili. Dalle fibre si ricavano anche tessuti, in questo caso un materiale simile all’ecopelle. Non serve nemmeno il colorante: la tinta, dice Brett Cotten della Arda Biomaterials di Londra, deriva dal tipo di cereale usato. “Le stout danno colore più scuro, con IPA e lagers siamo sul miele”. La strada per trebbie pret-à-porter è ancora lunga, concedono i ricercatori. Ma con la collaborazione diretta con i maggiori birrifici ci si può arrivare. Per soddisfare la domanda globale di pelle basterebbe, secondo Cotten, il 10% dei cereali esausti nel mondo.

Infine la sfida delle sfide: sostituire la plastica. Ci sta lavorando Università di Perugia con il suo  Polymeer Project. Non che prima nessuno ci avesse pensato: il problema finora era costituito dall’umidità della materia prima. Seccare bene i cereali è un processo lungo e dispendioso che rischia di essere impattante al pari della plastica. Il progetto perugino riesce a lavorarli così come sono, senza bisogno di passare per il mega phon. L’obiettivo è quello di creare una bioplastica resistente e utilizzabile entro quattro anni. Come dice la coordinatrice Assunta Marrocchi, professoressa di biotecnologie: “Dal momento che quasi chiunque beve birra, c’è così tanto su cui lavorare. È davvero una materia prima incredibile”.