Non sono un collezionista: non ho la pazienza, la costanza, quel briciolo di ossessione che serve. E per il collezionismo provo un sentimento ambivalente: da un lato ammiro la determinazione, dall’altro temo la maniacalità.
E dire che la gastronomia si presta alla raccolta.
La massima espressione del collezionismo nel nostro ambito è naturalmente quella delle bottiglie di vino. Una cantina piena di pezzi rari è simile a una galleria d’arte, tant’è che le case d’aste dedicano sedute specifiche alle grandi etichette.
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Ma è cosa impegnativa, che richiede tempo, fiuto e capitali.
A me divertono di più i cataloghi eccentrici, quelli che possiamo fare tutti. Ci sono ad esempio gli accumulatori di capsule di bollicine: gente tranquilla, che si trova ogni tanto per scambiare i rotondetti di metallo che stanno sopra gli champagne (e simili) cogliendo l’occasione per stapparne qualcuno.
Esistono addirittura cuochi che alimentano deliberatamente il feticismo: penso a Davide Scabin che da decenni a fine pasto regala una latta di pomodori con sopra stampata una grafica del suo ristorante, il Combal.Zero, e il menu.
Ma è proprio quella dei menu l’unica raccolta che, di tanto in tanto, pratico.
Mi piace tornarmene a casa con il menu. Un po’ perché mi ricorda cosa ho mangiato (ormai la memoria è annebbiata dai grassi saturi). Un po’ perché è un feticcio.
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In cucina ho il menu autografato di Paul Bocuse (mi ci portarono per il mio addio al celibato), in ufficio quello di Luis XV di Montecarlo che pesa più di una tesi di laurea, una volta ne portai a mia moglie uno dedicatole da Redzepi. Il più bello è quello dipinto a mano da cuoco-pittore piemontese Cesare Giaccone.
I menu sono belli. Sono come cartoline golose. Ricordi di momenti indimenticabili.
C’è chi vuole ricordarsi quell’estate a Capalbio. Chi, invece, quel pranzo incredibile a Licata.