Diciamoci la verità: se mancano le basi o la conoscenza necessaria a destreggiarsi tra un’etichetta e l’altra – una mancanza più che legittima, e non permettete a nessun gastrofighetto e a nessun Ministro dell’Agricoltura di dirvi il contrario – scegliere la bottiglia di vino giusta può essere tutt’altro che una passeggiata, specie quando magari si tratta di un regalo o ci sono degli ospiti a cena.
Dai, lo sappiamo che ce l’avete anche voi quell’amico vagamente alcolizzato, un poco spocchioso e al cento per cento stronzo che quando gli versate il vino comincia a farlo roteare nel calice una, due, tre, venti volte; per poi affondarci il naso, abbandonare questo piano esistenziale così rozzo per approdare in uno stato di trance ascetica, schioccare la lingua con fare saccente e mormorare “Ha fatto legno?”. Insomma, in definitiva quanto emerso da un recente sondaggio della Lidl non ci sorprende affatto – il 23% degli intervistati è dell’idea che comprare vino sia un’esperienza stressante.
Di vino, stress e piedistalli
Che il mondo del vino sia circondato di una certa aura di nobiltà, legittima ma di tanto in tanto anche un po’ posticcia, non è certo una novità. Sarà quell’abbondanza di termini francofoni che boh non avete mai capito bene cosa significhino, sarà quello stemma araldico che campeggia in etichetta, sarà che a onore del vero un prodotto così elusivo e capriccioso come il vino il rispetto, alla fine della fiera, se lo merita – il fatto è che il settore in questione, appassionati compresi, in questo brodo di fascino e presunzione ci sguazza e se ne compiace. A farne le spese, e ora lo confermano anche i numeri, sono i clienti.
A proposito di numeri, diamoci ancora un’occhiata: secondo lo stesso sondaggio citato in apertura di articolo quasi un quarto degli intervistati, come già accennato, ha vissuto l’acquisto di una bottiglia di vino come un’esperienza stressante; il 46% ha ammesso di non sapere come distinguere una “buona” bottiglia da una “cattiva” (termini che riportiamo tra virgolette perché, di fatto, “buono” e “cattivo” quando si discute di vino – e non di etichette – sono termini relativi) e un terzo ha invece confessato di trovarsi “disorientato dal gergo del settore”.
Quest’ultima frangia di dati è particolarmente interessante, se non altro perché è indicativa del fatto che il mondo del vino non ha evidentemente imparato a smarcarsi dalla sua autorità intrinseca preferendo, come già anticipato, renderla propria al punto da viziarla. Il risultato? Il pubblico non competente (o meglio, che non si fa problemi ad ammettere la propria incompetenza; che di fatto sono due misure diverse) finisce con il sentirsi inadeguato, giudicato, e più generalmente in colpevole disagio.