Come è possibile che Bud Light stia ancora pagando la scelta di un testimonial transgender?

Il Bud Light Gate continua a pesare sulle vendite della birra che, nel bene e nel male, associamo all'americano medio: ma come?

Come è possibile che Bud Light stia ancora pagando la scelta di un testimonial transgender?

I nostri lettori più fedeli la conosceranno come la telenovela a stelle e strisce più seguita dello scorso anno. La puntata pilota? L’ormai famigerato annuncio di una partnership tra Bud Light e l’attivista transgender Dylan Mulvaney.

Un battito di ali di farfalla che ha innescato un uragano mediatico, sporcato da evidenti – e anche grossolane – sfumature politiche. Tracciare una cronologia completa dell’ultimo anno da incubo per Bud Light è un compito impegnativo: vi basti sapere che, in ordine sparso, la partnership ha innescato un boicottaggio su scala nazionale, un taglio di quasi un terzo degli utiliun crollo in borsa, la nascita di competitor agguerritissimi, interi lotti invenduti o ignorati (persino quando tali lotti erano offerti gratis), l’avanzare dell’ombra di decapitazioni di alto profilo e il licenziamento di centinaia di lavoratori. Chiaro?

Le macerie del Bud Light Gate, più di un anno dopo

Bud Light

Numeri alla mano il Bud Light Gate è costato all’azienda madre – il colosso Ab InBev – circa un miliardo di dollari, e in termini più prettamente reputazionali l’ambito trono di birra più venduta in America (che, per un marchio che nel bene e nel male associamo con l’americano medio, è certamente un duro colpo).

Bud Light gate: se il tuo target è omofobo, rifarsi l’immagine serve solo a non vendere Bud Light gate: se il tuo target è omofobo, rifarsi l’immagine serve solo a non vendere

La partnership con Mulvaney è stata una disasterclass anche e soprattutto di carattere comunicativo: al netto della evidente omofobia trapelata dalla reazione del pubblico, sarebbe da chiedersi come sia stato possibile che il reparto marketing – o chi per esso – abbia valutato una lettura così grossolanamente errata del proprio target di riferimento.

Ma arriviamo dunque ai giorni nostri. Bud Light le ha provate un po’ tutte per riappropriarsi del proprio scettro: assumere come nuovo volto del brand un comico licenziato per battute razziste, appoggiarsi al buon vecchio Donaldone nazionale, puntare tutto sul più significativo evento culturale d’Oltreoceano – il SuperBowl. Risultati? Pochi e scoraggianti, ahinoi.

I dati più recenti mostrano la Bud Light a un misero terzo posto complessivo nella classifica delle birre più popolari degli States; alle spalle della Modelo Especial, di origine messicana, e della Michelob Ultra, birra a sua volta parte dell’ampio portafoglio di casa Anheuser-Busch InBev.

Di nuovo: per un marchio abituato a portare l’alloro un terzo posto su scala nazionale è segno di errori profondi e anche un poco grossolani. La morale della favola? Negli Stati Uniti fa meno rumore sparare a un candidato presidente che eleggere un testimonial transgender.