E così se ne è andato questo primo giorno di Cibus, la più muscolare delle fiere alimentari italiane. Anche il nome sa di forza, di potenza, un po’ come i titoli dei vecchi peplum: Hercules, Quo Vadis, Ben Hur, Cibus.
Se Seeds and Chips – in questi giorni a Milano – è elaborazione politico-culturale e il Salone del Gusto – a settembre a Torino – è crapula e militanza, Cibus è business, business, business e ancora business, sempiternamente business.
Cibus è mega stand e grandi aziende, brand e cravatte, listini stracciati e hostess truccatissime, fatturati e quotazioni, strette di mano e contratti, scontistiche e trattative, doppiopetti e surgelati, eccipienti e coloranti, salami grossi come un Hammer T-Rex e pareti di prosciutti, attrezzature per la ristorazione e salottini.
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Tutto questo vi toglie poesia? Vi sembra brutale?
Facciamocene una ragione: mangiare è un atto industriale.
Così come prevalentemente non portiamo ai piedi scarpe uscite dalle mani di un calzolaio, non vestiamo abiti di sartoria, non abbiamo i mobili intarsiati da esperti ebanisti e i bicchieri in cui beviamo non sono soffiati a Murano, così la gran parte degli alimenti che assumiamo viene prodotta in serie.
Le nostre case contengono prevalentemente prodotti realizzati da aziende medie o grandi.
Guardo nel mio frigo: al netto di ortaggi, passate e marmellate che arrivano dall’orto dei miei suoceri (già sono un privilegiato), tutto il resto proviene da società che fatturano da qualche a tantissimi milioni.
Il latte, le birre, i prosciutti, i formaggi, gli yogurt, la frutta, la maionese… E lo stesso vale per la dispensa.
Non c’è niente di male. Su questo pianeta siamo tanti, ci vogliono grandi produzioni, le merci viaggiano, le dimensioni permettono di fare efficienza, di abbassare i costi e dunque i prezzi e via così.
Distratti dalla dicotomia tra industriale e artigianale, non dobbiamo invece dimenticare che la vera questione è un’altra: ci sono industrie che lavorano bene e industrie che lavorano male. Alcune malissimo.
Ci sono le aziende che pagano le tasse, che riconoscono ai lavoratori i giusti diritti e salari, che badano alla qualità dei propri prodotti, che si curano del tessuto sociale e ambientale in cui sono inserite.
E ci sono aziende che se ne fottono, che evadono il fisco, che impiegano capitali di dubbia provenienza, che trattano gli operai come bestie, che devastano l’ambiente e i consumatori manca poco che non li avvelenino.
A Cibus c’è di tutto: dall’azienda più virtuosa a quella meno, con innumerevoli sfumature in mezzo. La fiera è fatta così: è un’arena, un kolossal dalle grandi passioni, c’è il ricco e il povero, il buono e il cattivo, l’astuto e l’ingenuo.
L’unica differenza rispetto a Beh Hur, è che ogni tanto incontri una mascotte vestita da robiola.