Il birraio dell’anno è Marco Valeriani, ma posso spiegarvi. Prima che, frastornati dalla miriade di concorsi strombazzati in ambito brassicolo, storciate il naso a tale assolutismo, prendetene atto: i premi italiani credibili, nel mondo della birra artigianale italiana, sono sostanzialmente due.
Ovvero Birra dell’anno, il concorso indetto dall’associazione di categoria Unionbirrai, con tanto di assaggi – alla cieca – che elegge un birrificio, e Birraio dell’anno, premio organizzato dalla rivista di riferimento Fermento Birra e svoltosi domenica scorsa, 20 gennaio, a Firenze.
[Chi è Josif Vezzoli di Elvo, il Birraio dell’anno]
[Abbiamo chiesto ai birrai dell’anno quali birre bevono e dove]
Tutto un altro paio di maniche: è un “Pallone d’oro della birra”, che viene assegnato in base al lavoro svolto dai birrai durante l’anno appena trascorso. Votano cento esperti, meritevoli di aver sondato il panorama birrario artigianale nostrano, e dalla loro analisi emerge una classifica di 20 birrai.
Qualunque sia la vostra opinione sulle opinioni altrui, l’esito di Birraio dell’anno riesce nell’intento di rappresentare il panorama del momento, offre un’istantanea piuttosto coerente con il talento dei professionisti e i trend di settore.
Ebbene, tra i cinque birrifici emergenti ha vinto Luca Tassinati, del birrificio Altotevere di San Giustino (PG), mentre il campione dell’anno è Marco Valeriani del birrificio Hammer (Villa d’Adda, BG).
Di lui e delle sue birre vi abbiamo parlato più volte, ma oggi ci è sembrato il caso di intervistarlo, per due motivi: è il primo Birraio dell’anno ad aver vinto due volte il premio, che portò già a casa nel 2016, e, pensate un po’, il 1 di marzo se ne andrà dal birrificio che lui stesso ha reso celebre, come anticipato in maniera vagamente criptica da Fermento Birra e pochi minuti dopo confermato da un comunicato stampa aziendale.
In breve, si ringrazia l’head brewer uscente per aver supportato la Società (di proprietà della Brigati S.r.R), che “nell’avvio di un percorso di successo”; prenderà il suo posto Matteo Palmisano.
Invece Marco aprirà, ottimisticamente entro la fine di giugno, un brewpub a Seregno, in provincia di Monza Brianza. Quindi sarà un birrificio con tap room annessa, destinata al consumo della quasi totalità di birra prodotta. Poca, ve lo anticipiamo.
Marco, perché hai vinto proprio tu?
Penso che i giurati abbiano apprezzato la mia costanza produttiva, oltre alla qualità percepita.
E se ti dicessi che potrebbe essere un segno di immobilismo per il settore, che hai vinto, di nuovo, in mancanza di altri papabili vincitori?
Più che di immobilismo parlerei di stabilità, e direi che è un buon segno: la qualità media della birra artigianale italiana si è alzata parecchio negli ultimi anni. Allo stato attuale si trovano una buona cinquantina di birrifici capaci di lavorare bene (in Italia ce ne sono circa un migliaio, ndr.), è un peccato che ci si confronti poco con l’estero, però.
E penso che altri birrai avrebbero potuto vincere tranquillamente, al posto mio.
Chi?
Giovanni Faenza di Ritual Lab (arrivato secondo, subito prima di Luigi D’Amelio di Extraomnes). Tra gli emergenti, invece, ha vinto Altotevere, che rappresenta la produzione più completa nella sua categoria, per stili rappresentati, e mi è parso molto costante nel lavoro. Anche il birrificio Altavia (giunto terzo, dopo Jungle Juice, ndr.) si sarebbe meritato la vittoria, ma forse la sua distribuzione più limitata non lo ha aiutato.
Dunque lasci il birrificio. Perché? Ma soprattutto, quanto di questa decisione è legato al tuo desiderio di indipendenza?
Beh, per me quello è un concetto fondamentale. Il mio sogno, che dai tempi della tesi, preparata in una fabbrica di birra, è sempre stato quello di avere una produzione mia, non può che passare dall’indipendenza. Prima dovevo fare esperienza.
Avrò un piccolo impianto, conto di produrre all’incirca 800 ettolitri l’anno. Farò il più possibile vendita diretta, con il pub di mescita accanto al birrificio, dove servirò anche cibo. Una piccola parte della produzione verrà venduta all’esterno, non so ancora se in bottiglia o in lattina.
800 ettolitri è davvero poco..
Il limite giusto per il mantenimento della qualità assoluta, l’ottimizzazione del lavoro, il controllo massimo sulla vendita diretta e sulla distribuzione.
Le piccole produzioni con tap room annessa stanno diventando una tendenza. Mi sto immaginando questa prospettiva: la birra artigianale italiana divisa in due grossi fazioni, con tante piccole realtà “dure e pure”, a rappresentare un settore sempre più di nicchia, in opposizione a poche “grandi” realtà artigianali presenti nella grande distribuzione e nell’horeca.
Avviene in tutto il mondo. Negli USA, ma anche in Italia, in Belgio e UK ad esempio, troviamo grandi birrifici artigianali che producono moltissimi ettolitri ma anche realtà locali che invece producono poco e vendono solo localmente.
Non penso sia un problema. A parità di qualità, il fatto di produrre poco e di gestirsi autonomamente la vendita e distribuzione fa sì, paragonato al sistema di vendita attuale della GDO/Horeca, che ci siano probabilmente anche dei livelli qualitativi differenti. La birra patisce molto il sistema di conservazione e le modalità di distribuzione.
E’ il cliente finale comunque, che in base anche alla comunicazione che fa il birrificio, decide cosa acquistare.
Sto cercando di riportare alla mente tutti gli stili birrari che hai interpretato quest’anno: una gose (che buona), una schwarzbier, la double IPA, una serie di American IPA, la Chocolate Stout, la English Pale Ale.
Hai intenzione di replicare un simile repertorio anche nel tuo nuovo birrificio?
Sì, in effetti è stato un anno pieno di sperimentazioni, dopo i primi due anni da Hammer dedicati alla stabilizzazione di un numero più limitato di ricette. Ovviamente le mie nuove ricette saranno diverse e mi concentrerò sulle basse fermentazioni.
Due anni fa, quando ti intervistai, mi dicesti che il segreto della tua birra è la riconoscibilità. Ora che le tue ricette appartengono ad Hammer, quale sarà il tuo marchio di fabbrica?
Io mi affeziono alla mano dei birrai che mi piacciono, al loro modo di lavorare sull’acqua, al loro concetto di birra. Sono certo che anche la mia mano si percepirà anche nelle nuove ricette.
[Crediti link e immagini | Birraio dell’anno; Chiara Cavalleris]