“Dovresti denunciare i tuoi silenzi complici in protezione della colonia d’occupazione e insediamento israeliana, e te stessa per tutte le volte che hai taciuto i crimini contro i palestinesi commessi dai nazisti”. A parlare è Gabriele Rubini, in arte Chef Rubio. Il palco è quello dei social, il destinatario Liliana Segre.
Il salto nel tempo era d’obbligo. Eravamo verso la fine del 2022, e il testo di cui sopra è solo uno di tanti messaggi pubblicati dal nostro in quel periodo, nei mesi precedenti e in quelli a venire. La senatrice a vita, attraverso il suo avvocato, aveva sporto denuncia e le autorità avevano aperto un’indagine per diffamazione con aggravante di odio razziale.
Le novità del caso Rubio – Segre
Rubio, è giusto sottolinearlo, non era solo: in tutto erano stati segnalati 246 account social. Lo scorso gennaio il pm Nicola Rossato aveva chiuso le indagini chiedendo il rinvio a giudizio per 12 persone; e una manciata di mesi più tardi – il 27 marzo – l’avvocato di Segre si era opposto alla richiesta di archiviare la posizione di altri 17 indagati avanzata dallo stesso procuratore.
Il che ci porta a noi. Nel provvedimento depositato nella giornata di ieri, 28 aprile, il giudice di Milano Alberto Carboni ha archiviato la posizione del cuoco. Le sue accuse sui social, “per quanto aspre, rappresentano una manifestazione argomentata del pensiero dell’autore in ordine a un tema politicamente sensibile” ha spiegato li giudice. “I termini usati sono continenti e non si risolvono in espressioni offensive“.
Allo stesso tempo il giudice ha disposto anche l’iscrizione di nove persone nel registro degli indagati e ordinato l’imputazione coatta per altri sette individui. Per altri 86 utenti tuttora non identificati, per di più, ha ordinato di svolgere una nuova serie di indagini così da riuscire a risalire alla loro identità.
Accusare “di nazismo una reduce dai campi di sterminio integra di per sé” la diffamazione ed è “uno sfregio alla verità oggettiva” ha scritto ancora il giudice. Si tratta, ha proseguito, della “più infamante delle offese per la reputazione di chi ha speso la propria vita per testimoniare gli orrori del regime e per coltivare la memoria dell’olocausto”.