La sostenibilità ambientale ha tradizionalmente rappresentato una solida argomentazione a favore della produzione (e immissione nel mercato) della carne coltivata, contrapposta alla ingombrante impronta inquinante degli allevamenti (responsabili, giusto per farci un’idea, di una percentuale compresa tra il 40 e il 50% delle emissioni antropiche di metano). Uno studio pubblicato sul sito bioRxiv, piattaforma che – è bene notarlo – raccoglie i lavori che ancora non hanno superato lo scrutinio della comunità scientifica, potrebbe tuttavia cambiare le carte in tavola: stando alle conclusioni tratte dagli studiosi, infatti, la produzione di carne coltivata avrebbe un impatto ambientale che nel breve termine potrebbe essere dalle 4 alle 25 volte superiore rispetto alla produzione tradizionale, nel caso in cui venisse utilizzato un metodo di crescita altamente raffinato.
Carne coltivata e l’impatto sull’ambiente
Gli autori dello studio, appartenenti all’Università della California, hanno preso in esame i costi energetici relativi a ciascuna fase della produzione di carne coltivata, dedicando particolare attenzione alle sostanze nutrienti in cui viene stimolata la crescita delle cellule staminali utilizzate, per l’appunto, per la produzione del prodotto finale. Stando a quanto emerso nella ricerca, sarebbero proprio queste sostanze a peggiorare sensibilmente l’impatto ambientale di questa forma di produzione, in particolare a causa dei processi di trattamento necessari a evitare la formazione di tossine e altri batteri nocivi.
Il risultato? Come accennato, i dati indicano che la produzione di un chilogrammo di carne coltivata potrebbe liberare nell’ambiente equivalenti di CO2 da 4 a 25 volte superiori le emissioni “tradizionali”. Attenzione, però – è presto per indossare il mantello della Sovranità Alimentare. Gli stessi ricercatori, infatti, invitano a interpretare quanto emerso con cautela, osservano che “saranno necessari ulteriori studi su questo tema” e riconoscono che alternative agli allevamenti di bestiame vanno trovate e messe in campo a causa dell’alto contributo di gas serra di questi ultimi.
Carlo Alberto Redi, presidente del Comitato etico della Fondazione Umberto Veronesi, ha analizzato lo studio e riconosciuto la conclusione che “gli attuali sistemi di produzione (tutti di piccolissima scala industriale), se portati al livello produttivo necessario per una significativa sostituzione percentuale della produzione mondiale di carne, risulterebbero più inquinanti dell’allevamento di bestiame”. Pur riconoscendo la natura dettagliata dell’analisi, tuttavia, Redi osserva che si basa “su molteplici assunzioni di variabili”, come quantità, qualità, costo e modi di produzione dei reagenti utilizzati e modi di produzione delle fonti di energia.
Variabili che gli stessi autori “riconoscono suscettibili di una diversa valutazione e impiego per approcci statistici diversi da parte di altri ricercatori: l’amplissimo spettro di variabilità presentato da tutti gli indicatori legati al processo produttivo può dunque portare a valutazioni statistiche molto diverse e a diverse valutazioni finali”. In altre parole la ricerca, conclude Redi, dovrebbe essere considerata come “valutazione critica necessaria”; con i risultati che rappresentano un “segnale di attenzione per spingere a migliorare gli attuali sistemi di produzione per carne coltivata“.
In definitiva lo studio non chiude la porta alla carne coltivata, ma piuttosto porta alla luce la necessità di migliorare la ricerca in modo tale da indirizzare al meglio gli investimenti del settore. Come gli stessi autori commentano, infatti, “sarebbe un errore investire nella produzione prima di avere risolto problemi di base che almeno non rendono la produzione sostenibile dal punto di vista ambientale”.