Se c’è una cosa che manca all’annoso, polarizzante, prosciugante dibattito sulla carne coltivata è il buon senso. Dalla politica ai mass media e social, fino alle solite chiacchiere da bar, l’argomento è ora caldo, ora utopico, ora off limits. Fortunatamente ogni tanto qualche voce, più chiara e cristallina della cacofonia, si leva: quella delle Università. È di questi giorni l’appello di studenti e ricercatori accademici, tra cui l’Università di Scienze Gastronomiche di Pollenzo, per la libertà di ricerca. E alla possibilità di impostare un discorso sano e analitico su una questione che ci riguarda tutti, volenti o nolenti.
Il collettivo accademico
Ebbene sì, ci volevano i “professoroni”. La carne coltivata, lo abbiamo scritto e riscritto, è un argomento particolarmente scottante per l’attuale amministrazione governativa. Che ovviamente percola e riflette il pensiero dei cittadini, almeno quelli schierati dalla parte che si esprime a caratteri cubitali. Nel quotidiano mediatico di fake news e percezioni distorte (non solo sulla carne coltivata in sé, ma anche sul business as usual degli allevamenti intensivi) c’è bisogno di fare chiarezza.
Così nasce un collettivo accademico di 19 ricercatori e ricercatrici che operano in diversi atenei italiani ed europei. Oltre a Università di Pollenzo e Università di Torino (la stessa dietro alla startup di carne coltivata CultMeat), ci sono Università di Roma Tor Vergata, Università di Trento, The Good Food Institute Europe, Istituto di Scienze delle Produzioni alimentari. L’obiettivo è la promozione di un sostegno bipartisan alla ricerca scientifica. In altre parole: affrontare l’argomento nel modo più neutro possibile, “con percorsi di valutazione ragionati, fondati su evidenza scientifica, caratterizzati da approccio interdisciplinare”. Ancora meglio: più fatti, meno parole.
Dibattito e ricerca
Il risultato della discussione è una nota critica in dieci punti, pubblicata il 20 dicembre su One Earth, rivista dell’editore scientifico Cell Press con focus sulla sostenibilità. La nota peer reviewed, come da prassi nella pubblicazione scientifica, vede la partecipazione del mondo accademico a tutto tondo. Professori di diritto, biotecnologia, bioingegneria, medicina rigenerativa dei tessuti, filosofia etica, semiotica, psicologia, percezione del consumatore, sicurezza alimentare, comunicazione scientifica.
“Negli ultimi anni, in diversi paesi è emersa una linea politica contraria alla carne coltivata non fondata sui risultati della ricerca scientifica”, commentano i co-autori Bertero, Fino, Massai. “La situazione creatasi in Italia, con la conseguente crisi di conoscenza acuita da decisioni politiche basate su informazioni come minimo incomplete ha ispirato la nascita di un collettivo di ricerca fortemente interdisciplinare”. A dimostrazione che questioni complesse hanno bisogno di risposte (e domande) complesse. Altro che politici parenti di o Giuseppina64 complottista su Facebook.
La nota titola “Cultivated meat beyond bans: Ten remarks from the Italian case toward a reasoned decision-making process”. L’attenzione degli autori è andata in primo luogo alla libertà di ricerca, che fino a poco tempo fa in Italia sembrava ostacolata dalla legge. Altrettanto importanti sono temi quali uso corretto del linguaggio (coltivata anziché “sintetica”) e salvaguardia delle informazioni trasmesse. Viene sottolineata anche la necessità di sostegno alla ricerca pubblica, responsabilità nei confronti dei consumatori, stabilità normativa in cui inquadrare il trasferimento tecnologico. Non manca, infine, un appello alla libertà individuale nelle scelte alimentari, perché sì: alla fine mangiare, proprio come votare, è un atto politico.