Ci era parso di leggere su La Stampa di stamattina una totale apertura di Carlin Petrini alla carne coltivata. E c’eravamo un po’ stupiti, in effetti, perché sul tema il fondatore di Slow Food non era mai stato così apertamente schierato. E continua a non esserlo, a quanto pare.
Il tema è quanto mai spinoso, con due fazioni ben distinte e opposte che continuano a farsi la guerra: una, capeggiata soprattutto da Francesco Lollobrigida, Ministro dell’Agricoltura e paladino della Sovranità Alimentare, sta anche trovando nuovi supporter in Europa. L’altra è quella di maggior apertura, quella che sostiene che la carne coltivata possa essere un possibile strumento futuro per combattere i problemi che gli allevamenti (quelli intensivi, ca va sans dire) e l’eccessivo consumo di carne portano con sé. Carlin Petrini si posiziona più o meno nel mezzo, e in effetti di per sé è lì che si sistemano tutte le persone di buon senso.
In sostanza, nel suo editoriale di questa mattina, Petrini dice che non ci dovrebbe essere uno scontro ideologico sul tema. Che non ha alcun senso che da un lato ci siano i “paladini difensori della tradizione” (perché i volumi dei consumi di carne che abbiamo oggi sono tutt’altro che “tradizionali”) e dall’altro chi pensa che “la tecnologia possa essere la panacea di tutti i mali”. Ci dovrebbe essere invece – dice Petrini – un confronto “che può essere duro, e anche non foriero di cambi di opinioni, ma aperto all’ascolto e alla reciproca comprensione”. Chiaro, limpido, giustissimo. Eppure continua a non funzionare, e la verità è che noi di ultras della carne coltivata ne vediamo pochi, a dire il vero, mentre vediamo molto spesso i “paladini della tradizione” che fanno della possibilità di lavorare su questa “alternativa” (che ancora non si sa quale tipo di consumi potrà avere, né se mai avrà un mercato, e questo è un particolare che mai si dovrebbe dimenticare quando si apre il dibattito) un pericolo spauracchio contro cui inveire (e far inveire).
La posizione di Carlin Petrini sulla carne coltivata
“Per il sacrosanto principio di precauzione, in questo momento particolare sono contrario alla carne sintetica”, dice Petrini nella sua lettera, ed è un peccato che anche un uomo della sua levatura caschi nella fuorviante terminologia inventata da una certa destra, che usa quell’aggettivo (“sintetica”) al posto di “coltivata” con un’accezione che non può che essere negativa. “Ma non sono meno contrario agli allevamenti intensivi”, prosegue Petrini, “perché in entrambi i casi il potere è nelle mani di poche multinazionali che spogliano il cibo del suo significato culturale, così come del legame con il territorio e con la Natura”.
In realtà non sorprende che il fondatore di Slow Food scelga il ritorno al “buono, pulito e giusto”, anziché il ricorso a una soluzione che non punta a cambiare in meglio le nostre abitudini, ma semplicemente a sostituire un prodotto con un altro. E qui sta il punto del suo ragionamento, credo. Che a questo punto diventa filosofico, olistico, e non entra neanche nel dibattito del “carne sintetica sì. Carne sintetica no”, in cui sembra volersi infilare con la frase iniziale.
Quel che ci sembra voglia dire Petrini è: il sistema è sbagliato, e se vogliamo davvero migliorarlo dobbiamo cambiarlo radicalmente, non metterci una toppa. Come a dire, traslando altrove la questione: non dobbiamo spingere le macchine elettriche, dobbiamo tornare a spostarci meno. Il che, da un certo punto di vista – in particolare dal punto di vista di Slow Food e del suo fondatore – è assolutamente comprensibile, e anche corretto e condivisibile.
Ma – e c’è un ma – non siamo certi che il tema della carne coltivata (e del no categorico che fino a oggi è stato dato al tema) sia fonte di questo dibattito. Ci spieghiamo meglio: siamo sicuri che la carne coltivata sia pensata davvero come un’alternativa alla carne “reale”? Tutto ci dice di no. Tutti quelli che ci stanno lavorando, che l’hanno conosciuta, sperimentata, studiata, ci dicono che ancora non si sa bene quale sarà l’utilizzo di questo prodotto, ma che di certo non potrà mai (o almeno, non per il momento) sostituire una bistecca (soprattutto se una buona). E – ribadiamolo ancora una volta – nessuno a oggi pensa di mettere in commercio un prodotto anzitempo. La scienza e la tecnologia stanno lavorando, lasciamole lavorare e poi decideremo. E lo faremo quando avremo qualcosa di concreto su cui decidere, qualcosa di più che un progetto. Dunque – ci chiediamo – a quale scopo essere sostenitori del “dovere di precauzione – specialmente in una fase in cui c’è ancora poca chiarezza sulle possibili ricadute negative per la salute”, come dice Petrini nella sua lettera? “la ricerca scientifica – sostiene chiaramente Petrini – non deve essere in alcun modo ostacolata”. Vero, verissimo, e allora forse varrebbe la pena di non mettere le mani avanti a favore di una precauzione che in questo specifico momento non ci protegge da nulla (perché nessun pericolo è in atto) e che non fa che aumentare la diffidenza verso un prodotto che no, non sarà certo la panacea di tutti i mali, ma che magari potrebbe aiutare a risolvere anche solo uno di quei problemi legati all’eccessivo consumo di carne (li elenca lo stesso Petrini, perché sono sotto gli occhi di tutti).
Ce lo chiediamo, perché a noi piacerebbe davvero avere un parere sulla carne coltivata, ma ci piacerebbe farcelo sulla base di una prospettiva reale, e non su un progetto in fieri, che viene ostacolato sul nascere.