Possiamo anche provare a fare finta di niente ma lo schiaffo del New York Times è arrivato: il cappuccino, la bevanda inventata secondo il mito dal frate dell’ordine dei cappuccini Marco da Aviano nel 1683, e che gli italiani hanno reso uno stile di vita, è in crisi d’identità.
Eppure l’Istituto Nazionale Espresso Italiano (ebbene sì, esiste!) stabilisce regole precise:
25 millilitri di caffè su cui si adagiano 100 millilitri tra latte e schiuma di latte, in modo tale da avere una tazza da 125 millilitri di piacere mattutino, esportabile praticamente ovunque, più ancora dell’espresso perché dolce.
A stravolgere l’idea del cappuccino così come lo conosciamo concorrono diversi fattori.
Il primo: le misure. Negli Stati Uniti il cappuccino è in tazza piccola, media o grande, un abominio. Che fine fa il sapore peculiare se si perdono le proporzioni auree, rabbrividiscono i compunti esperti italiani dell’INEI?
La responsabilità è delle tante catene americane, capostipite Starbucks, che pure al cappuccino dovrebbe qualche diritto, colpevoli di avere stravolto l’idea originale con immense e scipite cup che superano anche il mezzo litro.
Anche la decisione della SCAA, Speciality of Coffee American Association, di raccomandare un centimetro di schiuma, viene molto contestata. Solo un centimetro? Non è cappuccino ma una tazza di latte.
Altri puntano sulla perfetta esecuzione italian-style, oggi praticamente introvabile.
“L’obiettivo è quello di creare tre strati distinti: caffè, latte caldo e schiuma spumeggiante (non densa)”, precisa lo chef-star di origini italiane Mario Batali, “ma per berlo come gli italiani occorre agitare la bevanda in modo che i tre strati diventino una cosa sola”.
E’ così, agitando i diversi strati, che si dovrebbe notare nel cappuccino il tipico colore rosso/marrone delle vesti indossate dai frati cappuccini, accreditati di aver dato il nome alla bevanda (ma Batali predica bene e razzola male visto che indica l’Autogrill come luogo di perfezione del cappuccino).
C’è infine la scuola di pensiero che incolpa la degenerazione della latte art, un modo artistico di decorare il cappuccino (addirittura con colori alimentari) che lo ha reso un muscolare oggetto da competizione snaturandone il senso. Per i baristi è tempo di smetterla con i cappuccini in versione Instagram.
A darci manforte lo scrittore Oliver Strand, esperto caffeinomane: il cappuccino perfetto è di quattro once (più o meno cento grammi) e la parola d’ordine è consistenza.
Ma come dev’essere oggi la bevanda per potersi chiamare cappuccino?
Caffè corposo, latte cremoso, schiuma eterea: non è più tempo di brodaglie.
[Crediti | Link e immagine: New York Times]