So che è un argomento controverso, ma io la penso così: per chi accetta l’idea di mangiare carne, la caccia non solo garantisce la migliore materia prima, quella più gustosa e salubre, ma è pure il metodo più fair di procurarsela.
Uno può pensare che nessun animale debba soffrire e morire per sfamarci, e lo capisco.
Ma se si ammette che questo possa avvenire, è evidente che una vita selvatica che finisce con una pallottola è preferibile un milione di volte a una vita stipati come sardine in una botte, tra cadaveri, pastoni e medicinali.
Eppure.
Eppure anche tra i carnivori la caccia è guardata con sospetto quando va bene, con disprezzo la maggior parte delle volte. Tutti mangiano petti di pollo allevati in batteria ma se assaggi un uccello “sparato” ecco il “poverino”.
Un po’ è colpa di una certa retorica, di certi pregiudizi. Tanto è colpa –però, diciamolo– di chi spara. Sono stato a caccia con gente seria, che rispetta tutti i criteri dei parchi, che non infrange una legge una.
Poi ci sono quelli come i tizi raccontati negli ultimi giorni, in Piemonte, che, pare, aspettassero gli animali in fuga dagli incendi per impallinarli.
Sulla veridicità della notizia c’è dibattito –la denunciano gli animalisti, per ora le forze dell’ordine non hanno riscontrato eventi simili– ma il solo fatto che sia percepita come verosimile la dice lunga.
L’unico modo per riabilitare la caccia di fronte agli occhi dell’opinione pubblica è salvarla da chi la pratica in modo orribile. Non so come si possa fare, forse il primo passo è linguistico.
Cioè chiamare chi non rispetta la legge con il proprio nome: non cacciatore, ma bracconiere.
Se per colpa dei bracconieri un giorno verrà vietata la caccia ai cacciatori –è tutt’altro che inverosimile– noi perderemo cose squisite da mangiare e i primi continueranno a fare della legge quello che hanno sempre fatto: fregarsene.
[Crediti | Repubblica Torino]