Pensate di essere un piccolo ristorante indiano, di fare arrabbiare Burger King, uno dei più importanti colossi del fast food al mondo, e di rimanere coinvolti in una disputa legale con quest’ultimo in una battaglia che si trascina tra carte e sudore per tredici lunghi anni. Fatto? Bene: ora pensate di poter dire con piena certezza di avere vinto. Un po’ come quella volta che Red Bull se la prese con una piccola azienda di Cannonau sardo, insomma.
È il caso di un locale in quel di Pune, città incastonata nello stato indiano del Maharashtra, che ha attirato l’attenzione del gigante a stelle e strisce nell’ormai lontano 2011 a causa del suo nome – Burger King, per l’appunto. Un curioso caso di omonimia che, come potrete immaginare, non è piaciuto per niente alla catena di fast food.
Battaglia tra omonimi: le fasi della disputa legale
Ve la facciamo semplice: la Burger King Corporation (ossia il marchio di fast food, tanto per intenderci: occhio a non perdere la bussola) ha citato in giudizio il ristorante di Pune nel 2011 richiedendo un’ingiunzione permanente per prevenire la violazione del marchio e un compenso monetario.
Il proverbiale colpo di martello del giudice è arrivato appena una manciata di giorni fa, il 16 di agosto; e ha sentenziato che il colosso a stelle e strisce non è stato in grado di dimostrare che il locale indiano aveva violato il suo marchio. Ma com’è possibile?
In poche parole un Burger King era ben più “anziano” dell’altro. “Gli imputati utilizzano il nome commerciale per il loro ristorante dal 1992 circa” si legge nella sentenza redatta dal giudice distrettuale di Pune, Sunil Vedpathak. Il marchio di fast food, invece, ha aperto il suo primo punto vendita in India solamente nel 2014.
“Poiché non esiste assolutamente alcuna prova della violazione del marchio della catena di fast food statunitense e dell’effettivo danno causato alla stessa, la società non ha diritto ad alcun risarcimento dei danni” continua la sentenza. “Pertanto, in assenza di prove convincenti, ritengo che il querelante non abbia diritto al risarcimento, alla resa dei conti e allo sgravio dell’ingiunzione perpetua”. La vicenda, però, non è ancora finita.
I proprietari del ristorante indiano, Anahita e Shapoor Irani, hanno dichiarato di avere ricevuto a più riprese chiamate minacciose e offensive nel corso degli ultimi tredici anni, e hanno pertanto richiesto un risarcimento alla catena americana di due milioni di rupie indiane (equivalenti grossomodo a poco più di 21 mila euro) per il “disagio emotivo e la sofferenza” che hanno dovuto sopportare.
La corte, tuttavia, si è dimostrata inflessibile anche in questo caso, sottolineando come non fosse stata fornita alcuna prova – al di là della loro stessa testimonianza, è chiaro – a sostegno di tali accuse.