Il “Bud Light gate” sta diventando un caso di risonanza internazionale. Nato come innocua campagna marketing che aveva accostato il marchio, tradizionalmente vicino all’identikit del cosiddetto “americano medio” (nel bene e nel male, ma d’altronde questa non è sede per affrontare discorsi di questo genere), all’attivista transgender Dylan Mulvaney, l’iniziativa ha innescato una serie di lunghe e catastrofiche conseguenze – dal quasi simultaneo crollo in borsa alla nascita di nuovi competitor che hanno impostato la propria comunicazione su di uno spettro ideologico del tutto opposto e raccolto enorme successo. È stato, in parole povere, un fiasco dalle proporzioni colossali – tant’è che l’azienda di marketing responsabile della campagna “incriminata” si trova in un “profondo panico”.
Bud Light e la campagna con l’attivista transgender: quando il marketing finisce male
Captiv8 – questo il nome dell’azienda – si è fatta un nome nel settore grazie alla propria capacità di abbinare ai marchi suoi clienti degli influencer dalla buona risonanza mediatica (detti altrimenti, usando un termine che ormai pare appartenere ai libri di storia, testimonial). Da qui l’idea di affiancare a Bud Light, un marchio che come accennato è particolarmente popolare negli stati a forte rappresentanza repubblicana del Sud e del Mid-West, la figura di Dylan Mulvaney, attivista trans e influencer.
Una lettura grossolanamente (e clamorosamente) errata del proprio target, o un semplice tentativo di rifarsi il look adocchiando la possibilità di espandersi verso un nuovo pubblico? Qualunque fossero le intenzioni, il risultato non cambia – una disasterclass che entrerà nella storia del marketing. Secondo una fonte vicina agli uffici di Captiv8 e ai colleghi New York Post, la forte opposizione ha finito per seminare ansia e confusione tra le scrivanie dell’azienda di marketing, che naturalmente temeva di essere trascinata nell’abisso di polemica in cui era finito il marchio Bud Light.
La stessa fonte ha poi dichiarato che, sedato il panico iniziale, gli uffici di Captiv8 sono tornati a “lavorare come sempre”. L’impressione è quella che l’azienda voglia evitare di sbilanciarsi o di rilasciare commenti sulla questione nella speranza che il pubblico a stelle e strisce – notoriamente di memoria corta – finisca per dimenticarsi dell’intera faccenda: una supposizione, quest’ultima, che trova conferma nell’atteggiamento di Anheuser-Busch InBev, colosso delle bevande alcoliche che di fatto è “genitore” di Bud Light, che ha innalzato attorno alla questione un muro di impenetrabile riserbo; o al fatto che i profili social del marchio abbiano disattivato in toto i commenti. Meno se ne parla, prima si dimentica.