Da due anni a questa parte, facendo seguito all’invasione dell’Ucraina cominciata proprio nelle ultime battute del febbraio 2022, il commercio continentale russo è stato parzialmente paralizzato da dodici pacchetti di sanzioni introdotti, per l’appunto, dalle autorità europee. Tra i beni colpiti si segnala il petrolio, i diamanti e gran parte dei prodotti in acciaio, ma è bene notare che le derrate agricole – grano ovviamente compreso – sono di fatto state escluse dalle sanzioni comunitarie. Il motivo? Voler evitare una nuova e forte pressione sui prezzi dei cereali, nell’ultimo biennio già infiammati a causa del blocco ai porti ucraini sul Mar Nero e dalla congiuntura climatica avversa.
Questa l’impalcatura contestuale, più o meno comunemente nota. Ora veniamo a noi, e per “noi”, è bene notarlo, intendiamo proprio gli affari del nostro caro e vecchio Stivale: da circa un anno l’afflusso dalla Russia di frumento duro, ossia quello che fondamentalmente viene trasformato in pasta, ha fatto registrare una crescita del 1.164%. In altre parole, le importazioni da Mosca sono decuplicate nel giro di un solo anno.
Il boom del grano russo: un’occhiata ai numeri
Ci pare giusto ribadire, a vantaggio di chi si fosse seduto in fondo, che a oggi per l’Italia importare grano dalla Russia è perfettamente legale e non va a violare alcun tipo di sanzione comunitaria introdotta in seguito all’invasione dell’Ucraina. Al netto di tutto questo, i numeri sono però tali da piazzare Mosca anche davanti al Canada, tradizionalmente (e commercialmente) best friend dei produttori italiani di pasta; e soprattutto piazzano lo Stivale in una triangolazione moralmente scomoda.
Prima spazio ai numeri, però: stando a quanto riportato dal Corriere della Sera l’Italia si è affidata direttamente alla Russia, nel solo 2023, per importare 410 mila tonnellate di grano, che spiccano notevolmente se paragonati ai quantitativi – quasi inesistenti – degli anni precedenti. Allo stesso tempo si è registrato un aumento del flusso di import anche dalla Turchia (di nuovo 410 mila tonnellate in un anno) e dal Kazakistan (250mila tonnellate di grano nello stesso periodo).
La lettura proposta da Federico Fubini del Corriere è quella di triangolazioni più o meno maliziose atte a “coprire l’origine del prodotto”. Vale però la pena notare che un flusso di tale mole (e soprattutto di costo relativamente contenuto) potrebbe rappresentare, per le casse delle aziende italiane, una ghiotta occasione – tant’è che, numeri alla mano, il prezzo all’ingrosso del grano duro è sceso del 7,6% rispetto a luglio (ma comunque in crescita del 30% rispetto al 2021) proprio per effetto di tale politica di importazione.
Il risultato, come accennato in apertura di articolo, è una cornice morale scomoda: l’Italia, in definitiva, ha consapevolmente trasformato la Russia nel suo primo fornitore di grano pur continuando a sostenere le sanzioni contro Mosca.