Comprato il biglietto aereo, l’inviata del New York Times con la testa piena di sogni sul cibo italiano che avrebbe provato di lì a poco, si è imbarcata per Bologna, destinazione FICO Eataly World, il più grande parco alimentare del mondo aperto il 15 novembre da Oscar Farinetti, l’inventore di Eataly, in società con Coop.
Il primo commento è di sorpresa: “FICO is freaking huge!”
[Guida a Fico Eataly World: mappa, informazioni pratiche, come arrivare]
FICO è immenso (che detto da un americano…) con tanto di campo da beach volley, negozi, piste ciclabili, chioschi alimentari, passerelle pedonali e comode panchine.
Okay, ma di cosa parliamo quando parliamo di FICO? Risposta breve ma incompleta del NYTimes: “Un centro commerciale sul cibo trapiantato dentro un mall”.
Perché incompleta, qual è il vero senso di FICO?
Questi i distinguo del quotidiano americano:
I percorsi educativi, la parte didattica, di conoscenza e informazione su cibo e ingredienti, i laboratori che permettono di mettere le mani in pasta come quello di SfogliAmo, startup bolognese di giovani sfogline che con il contributo di qualche “nonna” gestisce il laboratorio per la produzione di pasta fresca.
Non mancano le critiche: alcune informazioni delle “giostre”, sono insignificanti, ma è evidente che i sei ambienti multimediali pensati per educare divertendo, sono rivolti soprattutto ai bambini.
Qualche slogan farinettiano non supera il fact-checking (“l’Europa è la patria delle mele, con 1200 varietà, e solo in Italia ne sono presenti 1000”, mentre nella sola Gran Bretagna ne esistono 4000 varietà diverse).
Il panino con il lampredotto fiorentino risulta “immangiabile”.
Ma il ristorante “Cinque” di Enrico Bartolini è delizioso, e il culatello di Zibello di Antica Ardenga, piccola azienda della Bassa Parmense, vince la gara del migliore assaggio di FICO. Che alla luce di tutto questo, allora, cos’è precisamente?
[Fico Eataly World: una lavoro piaciuto poco al Guardian]
Un centro commerciale che propone corsi di cucina? Una grande scuola con materiale didattico impreciso? Un omaggio alla cultura gastronomica italiana che a volte sconfina nella propaganda?
Qualunque cosa sia, al netto di “certi discorsi da hippy invecchiati su biologico, biodinamico e terre madri” (caro New York Times, Slow Food non apprezzerà questa critica), per provare tutto il cibo proposto da FICO non bastano tre giorni, si trovano specialità poco note all’estero, culatello docet, tanto buone da essere uniche al mondo e si impara dalle nonne italiane a fare i veri tortellini emiliani.
Non fosse altro che per questo, chiosa il NYTimes, il viaggio a FICO vale comunque la pena di farlo.
[Crediti: New York Times]