Non è certo un segreto che l’ultimo biennio, macchiato dall’imperversare del Covid, sia stato particolarmente difficile per l’industria della ristorazione e del tempo libero: gli enti competenti mostrano un crollo del fatturato del 45% (dati inerenti nel 2020) e, più recentemente, una netta crescita dei fallimenti per le imprese del settore. In tal contesto, dando un’occhiata ai registri delle Camere di commercio, emerge che risultano circa 7000 tra bar, hotel e discoteche in meno rispetto all’inizio del 2020.
Una caduta libera che solo negli ultimi tempi ha fatto registrare segnali di ripresa, grazie anche ai numerosi aiuti erogati dallo Stato: negli ultimi anni il Fisco ha erogato indennizzi per quasi 25 miliardi di cui circa un quinto (5 miliardi, dunque) è stato destinato proprio a chi opera nei settori in questione. Contributi che, di fatto sono spesso caduti a pioggia sulle Partite Iva (seppur con scarsa efficacia), ma talvolta hanno anche agito selettivamente come nel caso degli indennizzi per le chiusure di Natala 2020 o degli aiuti inerenti al decreto Sostegni-Ter. In questo contesto, le strutture ricettive hanno incassato più di 180 milioni di euro in contributi a fondo perduto – chiudendo allo stesso tempo 532 alberghi. “Il tax credit del 60% sui canoni di locazione ha aiutato” commenta a tal proposito il presidente di Federalberghi, Bernabò Bocca. “Ma il restante 40% ha continuato a pesare. Ci sono costi che continuano a correre, legati agli impianti e alla manutenzione: anche se dai 100mila euro per albergo, le risorse non bastano, quando la perdita totale del comparto è di circa 15 miliardi in un anno”.
A pagare il conto più salato, però, sono stati i bar: pur trattandosi di un settore ad alto “tasso di mortalità” (si stima pari al 55-60% a cinque anni dall’avvio), il biennio pandemico ha peggiorato sensibilmente la situazione – tanto da far segnare un -7.049 imprese rispetto a marzo 2020. Molto meglio invece i ristoranti, che di fatto risorgono con più di 9 mila attività in più rispetto a un paio di anni fa. “Rispetto ai ristoranti lavorare in un bar è meno attrattivo e più faticoso a causa degli orari e della continuità di presenza fisica richiesta” spiega a tal proposito Luciano Sbraga, direttore del centro studi della Federazione italiana dei pubblici esercizi (Fipe). “E resta molto sensibile alla domanda turistica e agli spostamenti casa-lavoro, drasticamente ridotti con lo smart working”.