Quest’estate mentre bighellonavo sulla sdraio mi arriva un messaggio di questo tenore (vado a memoria): «non ci conosciamo, ma sto in zona. Sono un “panificatore clandestino”, nel senso che lavoro a casa, mi piacerebbe farti assaggiare le mie cose».
Così un paio di giorni dopo, sempre in riva al mare, eccomi venire incontro un quarantenne con una sporta di pagnotte. Sulla maglietta ha scritto il nome del suo progetto. Ed è il miglior gioco di parole che abbia sentito negli ultimi anni: “Baking Bread”.
È perfetto: significa “infornando il pane” ma anche evoca la serie di culto “Breaking Bad” in cui, come in questo caso, c’è un laboratorio segreto, un’attività clandestina.
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Quel che mi intriga ancor di più è la storia dell’uomo: faceva l’operaio, poi s’è trovato a spasso, è andato a lavorare in una cucina popolare e lì ha scoperto una passione per il pane. S’è messo a produrlo, da autodidatta, e lo fa –come ho potuto verificare– molto buono.
Niente di esotico: niente lievito madre, niente forni tecnologici, niente farine (troppo) strane. L’ingrediente segreto è uno solo: lavorare bene, con cura e passione.
Il pane di Baking Bread l’hanno assaggiato in tanti –anche cuochi di livello–, a tutti è piaciuto. E a me piace tantissimo questa storia d’una persona che perde un lavoro ma scopre una passione. Che a sua volta, presto, diventerà un nuovo lavoro.
Appena uscirà dalla “clandestinità” –sta organizzandosi per aprire un forno– diventerò di certo suo cliente. Non è vicino a casa, ma le forme di pane buono, si sa, durano giorni.