Allevamenti sostenibili: e se la soluzione fossero i pitoni?

Integrare l'allevamento di pitoni negli attuali sistemi produttivi può essere una buona idea? Vediamo che dice la scienza.

Allevamenti sostenibili: e se la soluzione fossero i pitoni?

Dovrebbe essere chiaro a tutti (e a chi non è chiaro, evidentemente, non ha interesse – già, interesse – a comprenderlo) che trovare una soluzione effettivamente sostenibile all’allevamento animale sia una delle più (la più?) pressanti questioni del futuro alimentare. Le motivazioni sono numerose e diverse, di carattere ambientale ma anche e soprattutto etico e morale, e le soluzioni vanno considerate con assoluta serietà: scartata (in maniera miope e reazionaria, o “poco seria” se preferite) la carne coltivata, a voi la next in line, la prossima della lista – allevare pitoni.

No, non stiamo dando i numeri: uno studio recentemente pubblicato nella rivista scientifica Scientific Reports ha seriamente (parola chiave di questo argomento, insomma: serietà) preso in considerazione l’allevamento dei pitoni come nuova forma di bestiame per uso commerciale, traendo conclusioni decisamente interessanti.

Come funzionerebbe un allevamento di pitoni?

allevamento

Partiamo con il considerare che, dati alla mano, gli animali a sangue freddo (ectotermici) sono il 90% più efficienti dal punto di vista energetico rispetto agli animali endotermici; e che la carne di serpente è da considerarsi come una fonte di proteine già convenzionale nei Paesi tropicali e/o asiatici, famosa anche e soprattutto per il suo notevole valore alimentare, culturale e medicinale.

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I ricercatori hanno preso in esame la crescita di due specie di pitoni in alcuni allevamenti situati a Ho Chi Minh City, Vietnam, e Uttaradit, Tailandia; misurandone la lunghezza e la massa corporea al momento della schiusa, dopo sei mesi di vita e infine dopo dodici mesi. Gli animali erano alloggiati ad una densità di allevamento di 15 kg/m2, con roditori selvatici e scarti alimentari a contenuto proteico – salsicce a base di carne di maiale e pollo, nella maggior parte dei casi – che rappresentavano gli input alimentari più comuni.

Scendendo più nei dettagli le loro diete includevano, in ordine di frequenza, carne di maiale, roditori e carne di maiale (90%) accompagnata da pellet di pollo o di pesce; con il cibo che veniva fornito ogni cinque giorni o con frequenza ancora minore nei periodi più freddi dell’anno. Conclusa la sperimentazione i serpenti sono stati uccisi “con metodi umani”, si legge nello studio, e le loro carcasse sono state processate così da stimare il rapporto di conversione alimentare (FCR).

Numeri alla mano l’FCR medio per 58 pitoni si è arenato sul 4,1, il che significa che gli animali erano soliti consumare una media di 4,1 grammi di cibo per grammo di carcassa trasformata; mentre è bene notare che le parti utilizzabili di quest’ultima rappresentavano addirittura l’82% della massa corporea complessiva. Allo stesso tempo vale la pena sottolineare che i ricercatori hanno osservato che il 61% dei pitoni birmani è cresciuto in condizioni di digiuno (stato che, secondo lo studio, era da considerarsi quando i serpenti non consumavano cibo per almeno venti giorni), e che la perdita media di massa corporea durante tali episodi è stata di di 0,16 g/giorno, corrispondente a una perdita di massa dello 0,004% al giorno. In alcuni casi, per di più, si è osservato un aumento del peso anche durante i periodi di digiuno.

I risultati, in altre parole, parlano chiaro: la lettura proposta dagli scienziati è che l’allevamento di pitoni possa avere benefici tangibili per la sostenibilità e la resilienza dei sistemi alimentari, andando di fatto a integrare gli altri attuali sistemi di allevamento ottenendo rendimenti migliori attraverso una maggiore efficienza produttiva.