Ad Alessandro Borghese evidentemente – e giustamente – non piace l’aria fritta. Una conclusione legittima che può essere immediatamente intuita dopo avere letto il titolo di questo articolo, e d’altronde come biasimarlo: da sempre il fine dining si trascina dietro un ingombrante bagaglio di apparente solennità – spesso e volentieri confusa con la superbia – che i detrattori più cinici non esitano a bollare come “boriosa e costosa supercazzola”.
Già, che d’altronde si potrebbero riempire intere pagine su quel malinteso di fondo che vuole che il cibo, in quanto materia necessaria al sostentamento umano, costi se non poco almeno il giusto, un giusto che di fatto sia accessibile un po’ a tutti; ma tutto questo il fine dining non lo fa. Ci sorge dunque il dubbio che dietro le parole di Alessandro Borghese, la sua messa in guardia da un mondo a cui, fino a prova contraria, appartiene e vi è pienamente inzuppato senza possibilità di rimedio, ci sia forse qualcosa di più.
Piatti troppo sofisticati o corsie da rispettare
Vogliamo dire, i “piatti dai nomi troppo sofisticati” da cui Alessandro Borghese ci mette in guardia comprendono anche i suoi? Perché sfogliare un suo menu e trovare “La più liscia all’arrabbiata” (che è, a scanso di equivoci, un’arrabbiata) a venticinque euro ci fa pensare che le sue parole più che una messa in guardia siano un mezzo scivolone.
L’intervento in questione è un estratto di una breve intervista rilasciata dallo stesso Alessandro Borghese alle pagine cartacee de Il Gazzettino – Venezia Mestre, e a essere più precisi all’edizione uscita proprio nella giornata di oggi, venerdì 29 dicembre.
L’intervista, come d’altro canto suggerisce il nome stesso del giornale, parla di Venezia e dei veneziani, del loro rapporto con il cibo, dello stato della ristorazione tutta nel capoluogo veneto e dei piani di Alessandro Borghese per l’incombente Capodanno (piccolo spoiler per i più curiosi: proporrà un “percorso gastronomico alla scoperta dei sapori della tradizione”, accostato a “momenti di vero e proprio show time”).
L’intervistatrice pone però una domanda, evidentemente o inavvertitamente maliziosa, che ci interessa più delle altre: “Cenone a volte è sinonimo di fregatura, a cosa bisogna stare attenti quando si scegli un ristorante?”.
La risposta di Alessandro Borghese è ricca di spunti s(t)olidamente democratici (“Andare a scatola chiusa è sempre un po’ pericoloso”, meglio scegliere un ristorante dove si è già stati, buona idea chiedere agli amici ma alla fine a Venezia si mangia sempre bene), ma soprattutto c’è la messa in guardia: “Nomi di piatti troppo sofisticati dovrebbero già fare drizzare le antenne”.
Ma come, e quindi è una critica al sistema di cui lui stesso, fino a prova contraria, fa parte? Non proprio, c’è la precisazione: “Fare attenzione di fronte a ristoranti abituati a fare una cucina rustica e tradizionale che per il cenone si immolano in materie prime e piatti che non fanno parte della loro quotidianità”. Ah, ecco. L’importante è essere sofisticati tutto l’anno.