Immaginare lo studio della storia come la comoda – e francamente piatta – memorizzazione di una linea del tempo è riduttivo. La storia, un po’ come l’acqua, tende a prendere la forma del contenitore in cui viene “versata”, abitandolo e riempiendolo: storia militare, storia economica, storia sociale, e anche e soprattutto storia del cibo, che d’altro canto a prescindere da guerre e giochi di potere l’uomo ha sempre avuto l’impellente necessità di riempirsi la pancia.
Lo sa bene Alessandro Barbero, intervenuto negli scorsi giorni in una conferenza presso l’Università di Scienze Gastronomiche di Pollenzo, che ha la capacità di riassumere un atteggiamento che si è evidentemente conservato attraverso i secoli in poche parole: quella tendenza innata che è “il non voler mangiare il cibo degli altri, ma voler mangiare il proprio”.
Dal primo sushi agli inglesi che schifano le fritture
Una convinzione, quest’ultima, che non è naturalmente esclusiva al nostro Bel Paese; ma che conosciamo bene: ricordiamo che ogni italiano, d’altro canto, nasce con il patentino di supremo giudice del buono e dell’immangiabile.
Gli esempi sono molti: pensiamo alle reazioni alla ormai iconica pizza con l’ananas, o in tempi più recenti, agli insulti al primo pane italiano alla farina di grillo e, perché no, anche al semaforo rosso rifilato alla carne coltivata. Contesti differenti, siamo d’accordo, ma accomunati dalla stessa primordiale diffidenza per “il cibo degli altri”.
Barbero, è bene notarlo, ne è consapevole, e fornisce fior di prove a supporto della sua idea: il professore cita le lettere degli ufficiali inglesi dispiegati in Spagna ai tempi delle guerre napoleoniche, all’inizio dell’Ottocento, che spiegano di come la cosa più drammatica di un Paese povero e arretrato sia in realtà il cibo.
“Il cibo è immangiabile” racconta Barbero. “Friggono tutto nell’olio di oliva!”. Alla faccia di chi sostiene che fritto sia tutto buono, insomma: non avete mai parlato con un ufficiale inglese del Diciannovesimo secolo, evidentemente. “Questa cosa, per questi gentiluomini inglesi di fine Ottocento, suscita una gran repulsione, un disgusto!”.
La storia del cibo, poi, è anche ricca di “momenti che probabilmente dovrebbero passare alla storia come epocali, anche se sconosciuti”, in quanto “ponti” e punti di contatto tra civiltà fino a quel momento lontane. Siamo nella seconda metà dell’Ottocento, e la testimonianza è quella di un capitano di marina a stelle e strisce che giunge in Giappone quando questo aveva da poco cominciato ad aprirsi al resto del mondo. La scorpacciata (inconsapevole!) di sushi è dietro l’angolo.
Il capitano, ospite delle autorità, viene naturalmente invitato a pranzo: “Gli hanno dato da mangiare” racconta Barbero. “Gli hanno dato da mangiare del pesce: crudo!”. Lo sgomento con cui il nostro protagonista “prova a comunicare ai suoi lettori occidentali questa idea” così bislacca quasi trabocca dalle pagine. Oggi il pesce crudo, o il sushi, è ampiamente stato sdoganato: “Io credo che quel momento, in cui il primo occidentale ha assaggiato il sashimi, potrebbe essere una delle grandi date della storia della globalizzazione umana”.
Eppure, secondo la lettura di Alessandro Barbero, questa tendenza a “non volere mangiare il cibo degli altri” l’abbiamo superata: a oggi, spiega lo storico, sappiamo “di avere bisogno di un’educazione alimentare perché c’è una tale pressione di un mercato che propone cibo scadente” che non possiamo fare altrimenti.