Non è certo un segreto che ormai da qualche anno il mondo degli chef – compreso tutto il bagaglio/coacervo di caratteristiche che lo accompagna: dalla mitizzazione dello stesso a una certa pretesa di solennità – abbia nettamente perforato la propria bolla di competenza per approdare, in maniera più salda, nell’immaginario pubblico. Lo strumento con cui l’ha fatto, l’avrete intuito, è la televisione; il “veicolo” programmi come MasterChef o Cucine da Incubo di Antonino Cannavacciuolo.
Questo, dovutamente riassunto, il punto di partenza sul quale si innesta una recente analisi di Aldo Grasso per il Corriere della Sera. L’attacco è uno dei più eloquenti di sempre, tanto che – ne siamo pressoché certi – è di fatto composto da domande che vi sarete posti anche voi: “Quand’è che i cuochi sono diventati chef? Quand’è che gli chef sono diventati celebrità?”.
Gli chef celebrità e quelli preferiti, secondo Aldo Grasso
Badate bene – l’analisi di Grasso, spogliata fino al suo nocciolo tematico, è naturalmente legittima. Quello degli chef in televisione è certo un fenomeno interessante, se non altro perché potrebbe permettere di intavolare una più attenta discussione sulla effettiva sostenibilità del fine dining e sulla friabilità della narrazione che lo accompagna.
Dal banco degli imputati sorridono volti noti, a partire ovviamente da chi indossa (o ha indossato) la tunica da giudice di MasterChef: Carlo Cracco, Bruno Barbieri, Giorgio Locatelli e lo stesso Antonino Cannavacciuolo che, con l’ultima puntata del suo Cucine da Incubo, ha fondamentalmente innescato l’intervento di Grasso.
Due le direttrici di analisi: la effettiva credibilità del programma – “Non so quanto questo programma sia scritto (credo parecchio)”, scrive Grasso – e, più in generale, la ricerca della visibilità televisiva da parte degli chef. “Cannavacciuolo è a Tropea dove il nervosissimo proprietario di un ristorante, rischia di allontanare i clienti” si legge nel pezzo del Corriere. “Che sia tutta una recita?”. Compiuto il consueto miracolo (che non sempre si conserva, a onore del vero), lo chef campano può “dedicarsi a reclamizzare detersivi per la cucina, che ormai è lo sport e lo spot preferito per alcuni chef stellati”.
Questo il punto: la televisione ha reso gli chef in questione “famosi, ha procurato loro ricchi spot televisivi e altri lavori”. A chi cerca la luce dei riflettori Grasso preferisce “quelli che frequentano poco la tv come, in ordine alfabetico, Enrico Bartolini, Massimo Bottura e Davide Oldani“.
Da qui il nostro dubbio: l’impressione è che l’intervento di Grasso non sia del tutto aderente al mondo televisivo – come poteva essere, per fare un esempio la recensione (già negativa) dello stesso Cucine da Incubo, con Cannavacciuolo bocciato in quanto gigante buono -, ma che getti anche e soprattutto lo sguardo nel mondo della cucina.
Se il tema è che Grasso sia piccato dall’idea che la cucina abbia invaso lo spazio della televisione perché lui, celebre critico televisivo, fa lo stesso? È giusto basare la propria preferenza in termini di chef stellati su quanto (poco) tempo questi passano in tv o, per metterla in altri termini, che abbiano osato meno (o non osato affatto) violare i confini della cucina per invadere quelli del piccolo schermo?