Le industrie alimentari continuano a crescere. Si riproducono, si moltiplicano — in maniera esponenziale — dandoci un bel daffare nella catalogazione, nell’enumerazione e anche, diciamolo, nel trovarne i difetti.
L’industria alimentare (perché sì, si tratta di una sola, grande, industria alimentare) sembra essere destinata ad espandersi all’infinito.
Già da tempo abbiamo sotto agli occhi la lista delle dieci grandi multinazionali che controllano l’intero settore: Associated British Foods, Coca-Cola, Danone, General Mills, Kellogg, Mars, Mondelez International, Nestlè, PepsiCo e Unilever.
Secondo Oxfam, l’organizzazione mondiale contro la povertà, circa il 70% dei cibi venduti nel mondo fanno capo, in qualche modo, a una delle 10 multinazionali esistenti, fatturando 450 miliardi di dollari e capitalizzando circa 7.000 miliardi.
Ed è dal 2013 che la stessa Oxfam ha indetto il programma Scopri il marchio, evidenziando gravi carenze di vario genere nelle dieci multinazionali: si va dall’impiego dei troppi conservanti, del surplus dei grassi saturi o degli zuccheri, fino allo sfruttamento nella manodopera nei Paesi in via di sviluppo.
A oggi, 9 società su 10 hanno prodotto miglioramenti significativi.
10 aziende così grandi possono modificare sensibilmente la nostra percezione del cibo: semplicemente, perché lo modificano alla base.
“Si orientano i gusti e le preferenze dei consumatori, si modificano le culture alimentari. Una serie di studi ha stabilito che le multinazionali del cibo hanno gradatamente innalzato le percezioni del dolce, del grasso e del salato, magari utilizzando materie prime di bassa qualità: significa che ci accorgiamo che un piatto è troppo grasso o salato quando ne abbiamo già mangiato un bel po’.”
Così spiega Stefano Filippi, nel suo lungo articolo pubblicato da Il Giornale, in cui analizza l’oligarchia alimentare. Perché così va il mondo alimentare: pesce grande fagocita pesce piccolo, meglio, magari, se pure in difficoltà.
Oppure si dà luogo ad alleanze puramente strategiche, destinate a cambiare il mondo. Come Bayer, il re dei pesticidi, che ha acquistato Monsanto, il maggior produttore di sementi al mondo. Sovente, le aziende acquistano anche i pesticidi con le sementi. Questo significa controllare le epidemie, e di conseguenza dare anche l’antidoto.
È da accordi come questi che nascono, nel corso dei decenni, multinazionali come Unilever che, dai marchi di cosmesi (shampoo Clear, detergente Coccolino, Mentadent) è passato agli alimentari come Knorr, Lipton e — ops, we did it again — Grom. Secondo la classifica stilata dalla rivista americana Fortune ha un fatturato di 92,3 miliardi di dollari e centinaia di marchi in tutto il mondo.
E ancora, Nestlè, la società fondata da Henri 150 anni fa che ora annovera un carrello quasi sconfinato di prodotti con un fatturato di 92,3 miliardi di dollari. Nella sola Italia ha fagocitato marchi come Buitoni, Motta e l’acqua Vera.
O anche Pepsico, con un giro d’affari di 63,1 miliardi di dollari grazie a bibite, snack e cereali.
E se dicessimo Mondelez, multinazionale con sede a Chicago? La colleghereste direttamente alla Philadelphia, al Toblerone o ai biscotti Saiwa?
Per parlare di qualcosa di più recente e beverino, abbiamo il mega-gruppo della birra Anheuser-Busch Inbev, che agisce, stavolta, su un solo settore. Sugli scaffali si traduce in Beck’s, Stella Artois, Leffe e Tennent’s. Ah, no, c’è altro: di recente ha acquisito anche Birra del Borgo.
Per quanto riguarda l’Italia, abbiamo pochi competitor: primo in lista il gruppo Ferrero che, con i suoi 9,5 miliardi di fatturato, è fanalino di coda. Seguono Parmalat (nonostante il crollo), e Barilla.
Questo perché, nel nostro Paese, i grandi gruppi sembrano funzionare a singhiozzo, ma una cosa sembra chiara, perlomeno ai vertici: se non si vuol perdere, l’artigianato deve restare tale.
[Crediti | Link: Il Giornale, Dissapore]