Finora ce li immaginavamo con i pantaloni sottili come una guaina, le Vans e gli occhialoni alla Peppino di Capri. Non mangiavano (al massimo un club sandwich al volo), e sfrecciavano con bici dai colori ipnotici sulle vie trafficate delle metropoli. Ora, gli hipster trasmigrano dalle piste ciclabili nelle cucine.
Magari in quelle in muratura, con le vecchie pignatte di rame appese alle pareti, il caminetto annerito dall’uso del paiuolo e il grande tavolo di marmo, delle loro nonne.
Mettono da parte i tablet, sorvolano un attimo sui video caricati su Vimeo, e riscoprono cose genuine come la ribollita. Il processo è abbastanza atipico, quanto affascinante: gli smanettoni si mettono il grembiule e impugnano il mestolo per fare le stesse cose che facevano i loro nonni, riscoprendo la povertà in cucina come nuova gloria del costume. Contemporaneamente etico, meatless, organico, virginale. Lo dicono le ultime cronache d’oltreoceano e lo spocchiosofisticato blog Hipsterfood.
Nulla oramai fa più felice un hipster, a quanto pare, che scodellarsi un vero comfort food d’altri tempi – sia cioccolata fatta a regola d’arte e confezionata manualmente, sia la zuppa toscana per eccellenza.
Se pensavate che non ci fosse nulla di stiloso nel rimestare pane, cavolo nero e fagioli preparati tre giorni prima, è il momento di cambiare idea. L’immaginario collettivo aggiunge una nuova tessera al suo puzzle di stili di vita: l’individuo che razzola nel tegame di cotto è un trentenne barbuto dallo sguardo assente, maglia a righe con lo scollo a V e jeans a pelle. Però indossa anche un grembiule color carta da zucchero, che fa pendant con il lavanda delle pareti un po’ scrostate della vecchia cucina.
Sono vegani o vegetariani, questi nuovi ominidi virtual-rurali, che vivono sulla misteriosa linea di confine fra Tumblr, l’isola di Crusoe e il ricettario ingiallito del trisavolo oste. Fanno del motto antispreco “in cucina non si butta via niente” una massima nerd, e la piegano ai bisogni di un’economia domestica naif, con pentole in ebollizione e Stereomood in sottofondo.
Che la facciano come si deve, però. La citazione di Pulp Fiction è d’obbligo: “Mi chiamo Dissapore, risolvo problemi”. Abbiamo chiesto lumi a Fabio Picchi, chef e maestro del pensiero del ristorante Cibreo di Firenze, uno di cui il New York Times ha detto che parla come un poeta e cucina come un mago. Disclaimer: sul tema non è accomodante, rifiuta concessioni tipo non esistono ingredienti obbligatori. Vanno bene le varianti per questioni di moda, stagioni, disponibilità dell’ortolano, però se si chiama Ribollita pepolino e cavolo nero ci vanno, sennò chiamiamola minestra di pane.
Chiede l’esclusione della zucchina e l’abolizione della pratica “fette di cipolla in superficie e ribollita riscaldata in forno”. Per il resto la ricetta è questa:
Ingredienti:
200gr di verza
250gr cavolo nero
200gr di fagioli cannellini secchi
odori: prezzemolo, sedano, carota , cipolla
50gr di olio extra vergine
50gr di pancetta
3 pomodori
6 fette di pane toscano raffermo
Parmigiano quanto basta
Faccio lessare i fagioli cannellini, nel frattempo preparo un battuto con tutti gli odori, la pancetta e l’olio. Soffriggo e aggiungo il cavolo (o meglio, i due cavoli) che faccio appassire a fuoco basso per poi unire: pomodori, fagioli, di cui almeno metà passati, e circa 1 ½ d’acqua. Lascio cuocere per 1 ora, aggiusto di sale e pepe, unisco il pane tostato e rimetto sul fuoco per altri 30 minuti. Servo con olio extra vergine, pepe e parmigiano.
Bene, alla fine di tutto questo sano ritorno alle origini, avete il permesso, cari cuochi in calzamaglia, di ricorrere alla vostra matrice tecnologica: la foto instagrammata della ribollita arriva presto su twitter, l’hashtag da scegliere sarà #meatlessmonday. Esiste davvero, come esistono gli hipster che mangiano ribollita. Eremiti con la scodella di design. Contadini della rete.
[Crediti | Link: Vimeo, Fine Dining Lovers, Hipsterfood, Twitter. Immagine: Alessandro Guerani]