Sono proprio curiosa di vedere se arriverà il momento in cui dirsi esperti di cibo, parlare di cibo, occuparsi di cibo suonerà come una cosa insopportabile e molesta. Ci sono stati anni in cui dicevo “faccio la scrittrice” e vedevo sguardi preoccupati come avessi detto “faccio la poetessa” (la solita velleitaria, un peso morto, spero che abbia un piano B). Poi aggiungevo “e scrivo di ristoranti”, e la gente mi sorrideva, mi diceva che era il suo sogno di tutta la vita, ma come hai fatto ad arrivarci!
Attualmente la reazione si va modificando.
A forza di leggere della somma ricchezza della Rowling (autrice della saga di Harry Potter), della pericolosa milionarietà di Saviano, degli anticipi di Tom Wolfe, quando dici “faccio lo scrittore” vieni squadrato per percepire le tue potenzialità in relazione alla denuncia dei redditi, e quando aggiungi “scrivo di ristoranti” ti sorridono blandamente e dicono “come fai a mantenerti magro”, ma anche “quando accendo la televisione c’è sempre qualcuno che spadella”; oppure tentano di coinvolgerti in un acceso dibattito contro la cucina tecnoemozionale e molecolare, quella delle schiume e delle sferificazioni.
La richiesta più comune che si fa a uno scrittore è: “Dal momento che scrivo anch’io vorrei che leggesse il mio romanzo autobiografico e mi dicesse cosa ne pensa”. La richiesta più comune che si fa a chi recensisce ristoranti è invece: “Sono anni che la leggo; ricordo ancora la sua stroncatura di x, e quella di y. Farei qualsiasi cosa per poter mangiare con lei: scelga il ristorante”. È la ricerca di un brivido gastronomico che vada al di là di quello che c’è nel piatto, il desiderio di assistere in diretta all’autopsia di un pasto, di un servizio, di un arredo di ristorante. Per poter dire “io c’ero”, una volta uscita quella recensione, che naturalmente ci si augura sia una spietata stroncatura.
Difatti l’enfasi sulla cucina produce adepti, giovani seguaci d’umore esaltato, ma di rimando non fa che incrementare il branco degli indignados della cucina, i grillini della ristorazione. Che, va detto, perlopiù se la prendono con gli obiettivi sbagliati. Vorrebbero vedere schizzi di sangue metaforico negli algidi ambienti dei ristoranti più costosi e ricercati, supponendo che un conto da 250 euro significhi guadagni sleali fatti sulla pelle dei gourmet, e trascurano invece di mettere sotto osservazione quei ristoranti di basso o medio livello, sempre pieni, con un gran giro di tavoli, personale in nero nelle cucine e scelta di materie prime scadenti.
Il fenomeno crescente dei gastroindignados, in opposizione ai foodies (magnifico gioco di parole che di solito traduciamo maldestramente con gastrofanatici) non esaurisce le voci in campo. All’elenco va aggiunto il panpsichismo vegetarian-vegano (che attribuisce agli animali capacità cognitive e sentimentali, consapevolezza e coscienza), e il drappello dei salutisti, allergici, portatori di intolleranze che reclamano locali con menu appositi e negozi di alimenti certificati. Tutti questi attori producono un rumore di fondo simile a quello dei padiglioni delle fiere. A ogni fisima, a ogni passione, a ogni commercio, a ogni sofisticazione, a ogni diritto reclamato e calpestato corrispondono miliardi di caratteri a stampa, di pixel, di megabyte archiviabili su cloud.
L’insieme comincia a produrre sintomi di un’indigestione per ora solo paventata.
[Crediti | Da “Ossessionati dal cibo” di Camilla Baresani per Il, inserto del Sole24Ore. Immagine: Il]