Credo che di fronte a uno smørrebrød al pollo alla griglia con purea di ceci e halibut fritto mi sentirei come il tizio baciapile di Chocolat quando fa irruzione nella lussoriosa lussuriosa vetrina di Juliette Binoche e cioè: peccatrice, ammaliata e sconfitta. Perché sì, lo ammetto, nonostante i diversi strali lanciati da queste pagine contro i cuochi nerd e i formicai di Redzepi, la “ny nordiske kokken” – ossia, per i terroni cisbaltici, nuova cucina nordica – esercita su di me un innegabile peccaminoso fascino.
Piacerebbe anche a noi spacconi della dieta sudista l’idea di assaggiare strane prelibatezze cacciate in quei freddi boschi, pescate in quei freddi mari, presentate su tronchi e pietre in luogo dei soliti, maledettamente mediterranei piatti da portata. E allora l’unico modo per espiare questo vizio di gola e di incoerenza sarebbe quello di spingermi ora, a febbraio, in terra danese – considerato che a quest’altezza della stagione, decisamente stanca dei rigori e delle nevi, il mio clima ideale è quello di Fez ad agosto. Si può fare, basta partire con qualche indirizzo giusto e una rediviva innocenza del palato. Pare che la campagna elettorale possa restituirci anche questa.
Questi cuochi danesi, a proposito di innocenza, me li immagino rubizzi e tranquilloni come i modelli dei cataloghi Ikea. Ce li vedo in T-shirt con lo scollo a barca, grembiuli a righe e le famose galosce a sporcarsi di terra mentre estraggono tuberi mai visti da un terreno sabbioso e gelido. Dovevano essere più o meno così i due guru della suddetta “ny kokken”, Meyer e il bel René (Redzepi, chef del Noma di Copenhagen), quando nel 2004 proposero di smetterla con burri, lunghe cotture e brodi densi e pesanti, e virarono verso ingredienti come barbaforte, bacche di prugnolo, foglie di faggio, ostriche del canale di Limfjorden e luccioperca. Così negli ultimi dieci anni la Danimarca pullula di sperimentazioni, rivisitazioni e conversioni – e intanto la capitale conta 12 ristoranti stellati Michelin.
Anche il piatto nazionale si piega ai capricci e agli esotismi della nuova scuola: lo smørrebrød, il sandwich aperto su base di pane di segale con aringa, cipolla fritta e patate con salsa, è diventato decisamente più soft, rigorosamente bio e spesso lo si trova in varianti bizzarre – tipo quella col pollo e l’halibut sopra citata. Accompagnamento ideale: la birra prodotta nel birrificio artigianale di Nørrebro Bryghus.
E’ gioco facile degustare ostriche, caviale e salmone affumicato, che già troneggiavano sulle tavole baltiche prima della svolta redzepiana. Ma testare le anguille sottoforma di involtini con patate e salsa di prezzemolo è una delle esperienze da fare oggi nella capitale della cucina contemporanea. L’ultima tendenza, poi, che scimmiotta il porridge, piatto british per eccelenza, si chiama grød ed è una zuppa d’avena e farro che si accompagna a aringhe e purea di castagne.
Questo succede in posti che non sono il Noma, a dimostrazione del fatto che si può mangiare da queste parti anche senza per forza entrare nel tempio della nuova gastronomia del Nord. Che ormai, appunto, discende ma prescinde dal chiacchieratissimo ristorante. Ogni altro posto però porta avanti un muto dialogo di confronto con la filosofia di Redzepi.
Al Fiskebaren, per esempio, una sorta di pescheria postuma in cui se leggi il menu ti sembra di avere davanti agli occhi una lista di invenduti, si gustano pesci insoliti: merlanghi, pollock, lompi serviti con capperi, dragoncello e crème frâiche. Si gioca alla sottile arte del recupero, cosa che succede anche fuori dal piatto: se il Noma è nato sulle spoglie di un vecchio hangar portuale, Schønnemann, altro luogo di culto dove gustare il miglior smørrebrød della città, occupa un edificio ottocentesco. Qui il piatto nazionale costa un po’ più della media ma con una quindicina di euro due panini ti saziano papille e voglia di Nord.
Apparecchiano in stile Ikea al Relae, ristorante che può ben dirsi italo-danese considerata la provenienza dello chef Christian Puglisi, siciliano ma trasferito in Danimarca in tenera età. Anche qui le vestigia del Noma aleggiano come il fantasma del dramma amletico, non fosse altro che per gli spaghetti di patate in brodo di pecorino e alghe, o la quenelle di razza marinata e sedano rapa su salsa di acqua di molluschi e foglie di sedan, o più semplicemente la lista dei vini (vigneron naturali vanno alla grande).
Copenhagen: andiamo? Lo stay at home non è più di moda.
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