Incontro la signora Franca al Bar Celestino di San Lorenzo, quartiere storico della Capitale, e scruto il cielo su via degi Ausoni. Nero è nero. Gonfio. Grasso di pioggia. L’allarme maltempo sembra leggermente rientrato e il disastro chiamato Cleopatra, annunciato in questi giorni come uno degli eventi meteo peggiori degli ultimi anni, arriverà in serata, con elegante ritardo.
— “Dice che ariva er nubbigraggio…”
— “Dice chi, signora Franca?”
— “O dice a tivvù, e pure er sindaco, Giovanni”.
— ” Gianni”
— “E che ho detto io? Er sindaco, quello der sale, te lo ricordi er sale?”
— “Sì, lo scorso inverno, quando la nevicata mise Roma in ginocchio”.
— “Mise a chi?”
— “No, dicevo, la nevicata…”
— “‘Nzomma, quello lì. Comunque mo’ ha fatto come diceva er cantante”.
— “Quale cantante, signora?” “Quello simpatico che è morto, quello ‘mpochetto chiacchierato…”
— “Dalla?”
— “Eh, Brava, nun te la ricordi ‘a canzone? (canticchia, ndr.) – si esce poco la sera compreso quanno è festa… e c’è chi ha messo dei sacchi di sabbia vicino alla finestra..”
— “Certo che la ricordo, L’Anno che verrà. Lei parla dei sacchi di sabbia che hanno distribuito in alcuni quartieri per tamponare eventuali allagamenti”.
— “Ma che ne so che ce dovemo fa co sta sabbia. Nun era mejo er sale, così se poteva usà pe’ la pasta?”.
— “Non saprei signora” “Vabbé, vado ar mercato pe fà un pochetto de provviste, che tra un po’ ariva sta Cleopatra, e detto tra de noi nun me stava simpatica manco da cristiana”.
Guardo le strade del mio quartiere. Sono sporche, lerce. Un barbone infila la testa nel secchio della spazzatura alla ricerca di avanzi, un bambino poco più in là saltella tra gli escrementi come fosse il gioco della campana. In terra bottiglie di birra, mozziconi di canne e sigarette, buste di plastica abbandonate e sollevate dal vento e io non posso fare a meno di pensare alla pioggia come una possibile catarsi, un violento rituale per la purificazione della città.
Sono le 10. Arrivano i primi tuoni e qualche goccia inizia a cadere. Mi siedo con lo sguardo rivolto al campo di calcetto davanti alla mia finestra e provo a compilare una lista di cose che Cleopatra deve portarsi via. A cavallo della pioggia torrenziale, rotolando attraverso le fogne, nuotando lungo il Tevere e poi giù, verso il mare.
– La sporcizia dalle strade. Perché vedete, ci sono due Città in questo grande casino che è Roma. La Roma di Via Veneto, dei grandi alberghi, del Vaticano. La Roma dei Ministeri, delle ambasciate e del Parlamento E’ la città perfetta, profumata, vigilata. Qui passano le macchine per la pulizia dei marciapiedi, gli operatori ecologici e trovi persino i cassonetti per la differenziata. E poi c’è la Roma dei romani: sporca, brutta, abbandonata. Lavori stradali che durano anni, degrado culturale e sociale, parcheggi selvaggi, pizzardoni corrotti e tassisti incazzati. Basterebbe che Cleopatra facesse scivolare l’abitazione illegittima di qualche politico dalle parti di Torpignattara per ristabilire un po’ di equità sociale.
– Le birre a 50 centesimi. Sì perché qui di notte si beve birra comprata dai negozi gestiti dai bangla, aperti fino a tardi. E’ una gara al ribasso per rimorchiare studenti squattrinati e le strade di alcuni quartieri diventano pascoli per la transumanza di mandrie di ubriachi. L’ho fatto anche io, 100 anni fa. Forse sto invecchiando.
– I fast food improvvisati. “Se non sai che fare, apri un locale per il cibo da asporto”, sembra suggerire l’esperto in attività imprenditoriali della capitale, consultato soprattutto da stranieri. Non possiamo sperare che le prossime generazioni abbiano una coscienza gastronomica se continuiamo a foraggiarle con cibi di scarsissima qualità a pochi euro. Via Tiburtina, per esempio è un inferno di questi locali, senza soluzione di continuità. Kebap che fanno anche la pizza, pizzerie al taglio che fanno anche i panini, paninari che fanno cibo cinese e fiumi di birra, come sopra.
– I ristoratori improvvisati. E’ sempre lo stesso consulente imprenditoriale che suggerisce a chi può investire: “E che ce vò! Prendi du cameriere, n’egizziano che sa fà e pizze, du bire a la spina e parti. Cor ristorante se fanno li sordi, altroché”. Solo che se il mestiere non lo conosci, oltre che a lavorare male duri poco ed è tutto un passaggio sotterraneo di licenze per la somministrazione. Ogni giorno Roma ti cambia sotto gli occhi. ” Da Gino” diventa “Da Claudione” in un battito d’ali, per poi inevitabilmente trasformarsi ne “Il drago d’oro”, negozio di chincaglierie cinesi.
– Il conto alla romana. Ma come, direte voi. Sì, vorrei che Cleopatra si portasse via l’usanza ormai antica della divisione del conto in parti uguali per tutti i commensali, con conseguente rancore dell’amico un po’ tirchio che ha ordinato di meno, o della fidanzata che invitata a cena, pensava di non pagare. Si sente in colpa chi ha scelto il locale perché alla fine è risultato troppo costoso, ci rimane male chi ha accettato l’invito perché si aspettava di spendere meno e ci rimane male pure chi ha lasciato all’altro il compito di scegliere il vino e si trova una bottiglia da €150 sul conto, da steccare. Via anche il conto alla romana.
Tocca a voi che per me s’è fatto tardi. Devo raggiungere Franca e mezza popolazione di San Lorenzo al mercato rionale per la mia parte di provviste affronta-Cleopatra. Nella speranza che nessuno si faccia male, ditemi cosa vorreste spazzare via, adesso o mai più.
[Crediti | Illustrazione: Mickel Hiwatari, Foto: Elisia Menduni]