Si è chiusa a Rimini (la fiera un tempo conosciuta come) Pianeta Birra, una delle principali manifestazioni d’Italia in ambito birrario (sinonimo: “brassicolo”. L’ho messo così sapete che lo so). Io ci sono stata per la premiazione delle birre vincitrici del concorso Birra dell’Anno, organizzato dall’associazione culturale Unionbirrai. A partecipare, 103 birrifici candidati e più di 500 birre, suddivise per amore di precisione in 24 categorie differenti: ammessi solo prodotti artigianali non pastorizzati e senza aggiunta di conservanti.
Più avvezza ai meccanismi delle manifestazioni del vino, non ho potuto fare a meno di notare le vistose differenze. Dalla più formale (l’enorme Vinitaly, a Verona) alla più spensierata (tra le molte, la bella La Terra Trema al Leoncavallo di Milano), le fiere dedicate al vino sembrano accomunate da un alone di sacralità che nel mondo della birra viene apertamente ridicolizzato. Se non ci sono i tetri direttori commerciali di Vinitaly, nemmeno si troverà l’atteggiamento politicamente consapevole del mondo del vino naturale.
Queste cose, insomma, non si trovano.
Ci sono, invece: un folto numero di persone con i lobi divaricati, una quantità allarmante di barbe dalla foggia “a pube”, un tot imprecisato di felpe con il cappuccio. Avvistato anche un uomo con al collo, invece del classico bicchiere da degustazione, un pappagallo di plastica (non il volatile. L’altro pappagallo).
C’è, inoltre, un’atmosfera chiassosa e vivace, sia tra i numerosi visitatori, sia tra i produttori negli stand, che sembrano partecipare del buonumore collettivo. Il mondo della birra artigianale è cresciuto a ritmo vorticoso nel corso degli ultimi 10 anni, e i suoi membri hanno l’aria festaiola di chi non è necessariamente nato birraio, e si è convertito per passione.
Un’ottima cartina al tornasole sono le etichette delle birre. Nessun castello in Toscana né stemma nobiliare: piuttosto, colori flou, disegni bizzarri (ad esempio, un Alvaro Vitali in versione Pierino, con cappello d’asino in testa) e nomi spericolati (come “Una Cotta e Via” e “Due di Picche”).
Qui c’è la lista completa dei vincitori di quest’anno. Tra questi, alcuni assaggi che ho prediletto, senza pretese di esaustività.
Prima classificata nella categoria birre acide: La Luna Rossa, Birrificio del Ducato. Assecondando il mio penchant per le kriek belghe, ho molto amato questa birra acida su cui hanno macerato amarene e marasche. Il blend viene messo in bottiglie numerate indicanti anche l’anno della cuvée, affinate in cantina altri 12 mesi prima di essere messe in commercio.
Prima Classificata per la categoria ambrate e scure: Scubi di Birrone (punti bonus al birrificio per i nomi delle birre). Una birra scura un po’ ruffiana, estremamente piacevole, che sa di caffè, liquirizia e caramello.
Prima Classificata nella categoria Scure, alta fermentazione, luppolate, d’ispirazione angloamericana: 2 di picche del Birrificio Menaresta. Una Black I.P.A, che sa di frutta tropicale e note balsamiche. La trovo irresistibile nonostante la mia nota resistenza per tutto ciò che proviene dalla mia natia Brianza (si scherza).
Prima Classificata nella categoria Affumicate, alta e bassa fermentazione: la Ghisa del Birrificio di Lambrate. Non una scoperta, in realtà: come avviene per (quasi) tutti i milanesi svezzati alla birra artigianale, è proprio il Birrificio di Lambrate, nella periferia della città, ad averci insegnato a guardare al di là della Beck’s. La Ghisa al naso ha un affumicato con echi di scarmorza, e una tostatura che ricorda il caffè.
[Crediti | Immagini: Emanuela Marottoli]